Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic. Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini. © Der Spiegel - La Repubblica.
VIENNA (29 MAGGIO) - Il mio primo contatto con un paese fuori dalla guerra l'ho avuto sull'autostrada croata, sull' auto di un gentile
macedone che aveva accolto la nostra preghiera di portarci a Zagabria.
Abbiamo perso tanto tempo per attraversare il confine,
che non siamo più riusciti a prendere il bus per l'aeroporto. Se qualcuno mi avesse detto che a trent'anni avrei fatto l'autostop,
in piena guerra, lungo un confine mai immaginato, gli avrei dato del pazzo. Ma i tempi cambiano, e forse sono io a sembrare pazza.
Il rischio è diventato parte fondamentale della mia vita.
Viaggiando in territorio croato ho ricordato i tempi in cui due volte
l'anno facevo lo stesso tragitto verso il mare. Paesaggi meravigliosi, buone strade, edifici in costruzione, ponti e viadotti. La Croazia
è sempre stata un bel paese, ma oggi mi sembra più bella che mai. In poche decine di chilometri si percepisce una
differenza di sviluppo di vari decenni. Il mio paese è distrutto e va verso il disastro, mentre il paese che attraverso è
proteso verso il futuro.
Al limite della maleducazione - non sono riuscita a concentrarmi nella conversazione con il giovane che
guidava - pian piano sono sprofondata in un sentimento di nostalgia per il mio paese di un tempo: la ex federazione jugoslava, la terra
in cui sono nata, grande, bella, variegata, pacifica. E talmente tollerante che neanche il comunismo era stato totalitario. In questa
terra ho avuto un'infanzia tranquilla e una bella giovinezza. Potevamo circolare dovunque, con la nostra valuta e i nostri passaporti.
Eravamo un paese neutrale nell'area orientale.
Persino le vanità del maresciallo Tito, la cui ambizione di potere era pari alla
passione per le automobili costose, le belle uniformi e la vita lussuosa, adesso mi sembrano sciocchezze. Oggi, a un decennio dallo
smembramento del mio paese, è come se fossimo diventati distanti, come se vivessimo in continenti diversi. Eppure io ho
sempre sentito questa terra come un unico spazio culturale, ricco della sua diversità. E questo sentimento non mi
lascerà mai. Forse è questo bagaglio, mio e della mia generazione, - l'ultima a ricordare la Jugoslavia che fu - con i
ricordi di una vita passata in un paese pacifico, a rendere inaccettabile l' idea di cambiamenti radicali.
Molti di noi serbi, e moltissimi
croati, sloveni, bosniaci, sono tuttora indignati per questa sanguinosa separazione. La colpa maggiore è nostra, e il rimorso
è insopportabile. Quando, alcuni mesi fa, ho percorso la carrozzabile Belgrado-Zagabria, per la prima volta ho visto gli edifici
distrutti, i campi minati che il nostro esercito ha lasciato dietro di sé nell'ultima guerra. Allora ho pensato che col tempo sarebbe
stato possibile ripristinare la comprensione tra noi. Purtroppo il tempo ha dimostrato che avevo torto.
Ma al momento di arrivare
all'aeroporto di Zagabria ho avvertito una specie di semi- pacificazione. Ora che finalmente scontiamo la pena per ciò che
tutti noi abbiamo fatto, ora che il nostro paese lentamente sprofonda, scompare, si trasforma in rovine, ora in un certo senso possiamo
guardarlo tranquillamente, e senza irritazione riprendere contatto con la nostra terra. A questo pensavo guardando, conversando,
discutendo con la gente che ho incontrato. Salendo sull'aereo per Varsavia, sono stata sopraffatta non dalla nostalgia ma da una
profonda tristezza. E vorrei dire, senza entrare in discorsi difficili, senza particolari riflessioni, senza voler fare della filosofia: è
terribile che sia finita così.
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