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Interrogatorio alla frontiera

Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic.

Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini.

© Der Spiegel - La Repubblica.

TERRA DI NESSUNO (28 MAGGIO) - Il mio viaggio comincia all'alba, alla stazione delle corriere di Belgrado, in una confusione indescrivibile. Alla mia domanda sottovoce: "A che ora arriverà a Zagabria l'autobus?", la bigliettaia ha cominciato ad urlare maledicendo il mio viaggio, sperando che l'autobus fosse in ritardo, e che tutti noi rimanessimo là dove stavamo andando. Mi sono vergognata e non ho risposto niente, mi sono vergognata per lei e mi sono ritirata all'altro lato della sporchissima sala di attesa. Allora mi sono accorta che nel mio angolo non ero sola. Un gruppo di albanesi, alcuni vecchi con le loro mogli, aspettavano l'autobus che va in Kosovo, la corriera di linea, che parte non appena cessa l'allarme dell'attacco aereo. Guardavo questa povera gente, con qualche pacco vicino: chi sa da dove vengono e chi sa quale destino li obbliga a recarsi là proprio adesso. "Dove siete diretti? Fermatevi! Tutta la gente normale scappa di là!" volevo urlare e fermarli nel momento in cui salivano sull'autobus. Ma sono rimasta zitta, non ho detto niente.

Ho pensato che questo era il momento peggiore del mio viaggio, ho visto il mio autobus: un rottame su quattro ruote, più sporco della sala di attesa, pericolosamente inclinato su un lato. Sono salita. Mi sono abituata all'odore di urina che emanava dappertutto, dalle tende, dai sedili, dai finestrini. Amare la propria patria, ho pensato in quel momento, significa stare attenti. Questo è l'unico vero patriottismo. Mantenere tutto in vita, tendere allo sviluppo della patria, al suo progresso, anche alla pulizia. Questa è la mia utopia alla quale pensavo viaggiando con questo autobus merdoso verso la frontiera serbo-croata. Ci siamo trascinati fino alla dogana senza grossi rischi, tagliando solo due curve e ascoltando musica "patriottica" a tutto volume. La frontiera, distante pochi chilometri da Belgrado, era chiusa. Anche se alla tv dicono che le frontiere funzionano senza problemi, la verità è che chiudono al tramonto per riaprire la mattina dopo, quando lo decide "qualche responsabile". Dopo qualche ora di inutile attesa davanti alla sbarra - c'erano il nostro autobus, un camion macedone e un carro funebre - ho cominciato a perdere la pazienza. Il mio aereo del pomeriggio, volo Zagabria-Vienna, sarebbe decollato senza di me; il mio visto è di solo transito per la Croazia, il che significa che non posso fermarmi a Zagabria più di tanto, e tutto è diventato troppo complicato.

Il mio ragazzo ha deciso di prendere in mano la situazione: ha avuto un'informazione certa di quello che stava succedendo dalla donna delle pulizie dei bagni pubblici: "Si aspetta un poliziotto speciale - ha detto lei - lui si fa aspettare sempre" ha aggiunto lei continuando a pulire. Abbiamo fatto un gioco tutti insieme: indovinare con quale macchina sarebbe comparso il poliziotto speciale, perché era in ritardo, e cosa avrebbe fatto. In lontananza si vedeva avvicinarsi una Golf: "E' quello", ha detto qualcuno, da quando è stata distrutta la fabbrica della Volkswagen in Bosnia, le macchine rimaste - sarà un caso? - sono guidate dai poliziotti. La Golf è passata, ma dentro non c'era il nostro uomo. E' arrivato con un'automobile russa, una Lada rossa, solo qualche ora dopo. Presto abbiamo conosciuto anche il resto della misteriosa faccenda: dovevamo fare un discorso speciale con lui. Si trattava della sicurezza del paese: per questo non posso dirvi di cosa abbiamo parlato.

Posso accennarvi che ho dovuto dire il nome del mio ex-ragazzo, che numero di scarpe porto, se mi tingo i capelli e se conosco qualcuno del governo americano. Come potete vedere, ho superato il controllo, ma non ho confessato le mie relazioni da agente segreto. Così sono uscita dal paese.

 
 
 
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