Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic. Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini. © Der Spiegel - La Repubblica.
BELGRADO (16 MAGGIO) - Una volta da un grande scrittore ho imparato una cosa: la gente dovrebbe essere portata a vedere
il palco dei comizi da dietro, prima di permetterle di adunarsi davanti. Nessuno regge a una demistificazione come questa, nessuno,
se vede la tribuna da dietro, può essere colpito dalla gente che ci sta sopra. Il nostro leader ha conquistato il potere
così: per anni saliva sulle varie tribune, gridando idee che si reggevano con difficoltà, e con qualche mantra
nazionalista sembra aver narcotizzato il popolo, che adesso gli lascia governare il paese. Non ho mai visto nessuno dei suoi
comizi, né di fronte, né da dietro. Ciò nonostante, lui governa anche me. Perciò oggi ho deciso
di visitare la sua ultima tribuna.
In piazza della Repubblica, al centro della città, dall'inizio della guerra si svolgono
adunate pubbliche-concerto. Ogni giorno il pubblico diminuisce, e in proporzione inversa con l' interesse del pubblico aumentano i
decibel dagli altoparlanti. Le annunciatrici urlano anche di più, per attirare l'attenzione dei passanti. Come disperate
gridano il nome del nostro paese per cento volte, sputando sul microfono, sudando per lo sforzo e storcendo le facce: "Viva la
Serbia!", "Que viva la Serbia!", "Evviva la nostra Serbia!", ed anche "La Serbia
vivrà!". "Qualcuno penserà che qualcosa non va in Serbia, per colpa di questi che gridano
così tanto", ha detto la mia mamma l'ultima volta che è passata nella piazza, aggiungendo: "Da
questo momento non uscirò di casa finché la guerra non finisce. Meglio che mi colpisca una bomba, piuttosto
che cedere alla tentazione di picchiare questi che urlano. Sono una signora in età avanzata, sarebbe una vergogna
per me picchiarli!"
Sicura che questa sia l'ultima tribuna per Milosevic, l'ultimo pulpito dal quale, con i suoi emissari,
si rivolge al popolo, sono andata a vederlo. Piovigginava, faceva freddo, la giornata era umida e grigia, ma il programma si
svolgeva lo stesso, anche se non c'era nessuno del pubblico. Nessuno, tranne me. "Non fa niente se
sono l'unica", pensavo, "anch'io sono il popolo. Dicono che tutto questo succede per il popolo, dunque
per me: devono rappresentare tutto il programma per me, o farò ricorso!", gridavo, mentre mi si avvicinava un
poliziotto. "Sta parlando con me?" ha chiesto, "Niente", ho detto, "è una manifestazione
magnifica". E lui alzava le spalle, pensando che sono pazza, fumando, e continuando a camminare.
Ma io, perdio,
non mi sono mossa: aspettavo il mio presidente. Lui, naturalmente, non si è presentato di persona, ma le sue idee
viaggiano, la sua presenza è onnipotente e non fisica, gli emissari trasmettono le sue idee con certezza. Però oggi
vanno di fretta, suonano due o tre brani, un valzer ...e basta! Hanno freddo, non vogliono bagnarsi: è domenica, nessuna
persona normale è in strada. Lui sicuramente no, lui è nei villaggi e nei boschi del Kosovo, tramite i giovani di leva
e i volontari-bestie. Lui combatte così. Manda prima una squadra di paramilitari che fa un massacro, poi spedisce i soldati
perché ricevano il contrattacco della Nato, impone alle annunciatrici tv di spiegare tutto al popolo, e intanto se ne sta
tranquillo nel suo fortino, caldo, asciutto, forse un po' buio, ma sicuro, aspettando una nuova giornata.
Dopo il concerto
sono andata dietro la tribuna. Volevo seguire il suggerimento dello scrittore, vedere il leader dall' altra parte. Mi aspettava una
sorpresa. Il retroscena non esisteva. O meglio: esisteva, ma sembrava la stessa cosa che davanti. Stessa dimensione, stessa
disposizione delle guardie, stesso ordine e stesso clima. Come allo specchio: il palco davanti e quello dietro, totalmente uguali.
Questo può significare solo due cose: o il rovescio non esiste, oppure in questo paese, sfortunatamente, il
rovescio è diventato il davanti.
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