Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic. Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini. © Der Spiegel - La Repubblica.
MULHEIM (8 GIUGNO) - L'incontro finale con gli amici del teatro di Belgrado, venuti qui
per recitare il mio lavoro, è tristemente paradigmatico dell'intera situazione. Il testo, che tratta della vita di alcuni giovani
jugoslavi emigrati, fuggiti all'estero durante la precedente guerra in Bosnia e Croazia, ha ora un seguito.
Alcune interpreti del
dramma sono vere emigrate, ma questa volta fuggono dal terrore dei cieli di Belgrado. Un'attrice, all'ultimo momento, non ha voluto
venire in Germania, temendo di scontrarsi con uno Stato "ostile". Un'altra è giunta da Parigi per recitare il suo
ruolo per l'ultima volta e quindi ritornare in Francia, la nuova patria dove ha deciso di emigrare. Il regista è stato trattenuto
alla frontiera ungherese perché la polizia locale, per motivi burocratici, non gli ha concesso il visto di transito attraverso
il paese.
Coloro che sono arrivati, esausti per il lungo viaggio e il troppo lungo vivere in stato di guerra, rispondono,
sconvolti, a un'infinità di domande che finiscono col perdere di significato. Molti hanno atteso l'alba svegli, nelle
camere dei loro alberghi, essendo il cinguettio degli uccelli, nel parco dell'albergo, troppo chiassoso per i loro sensi acuti e
i loro nervi logori.
Io ho atteso il mattino in compagnia delle notizie dalla mia "patria". Una politica fallace è
riemersa di prepotenza. Per la millesima volta, si è insinuato in noi il dubbio che la pace non fosse poi così vicina,
anzi, questa mattina sembrava addirittura non essere neppure all'orizzonte. Una sensazione che si rafforzava riflettendo
sui nostri negoziatori, che conducono la politica con una psicologia da borseggiatori che, mentre si fingono "vittime",
rubano dalle tasche "cose di scarso valore".
La pace ora sembra davvero vicina ma nessuno sa quando si
compirà del tutto. Essi, che conoscono solo la lingua della forza, hanno tentato di rubare ancora un po' di tempo per
sé, sfidando la rabbia della Nato e cercando di prolungare così quello stato di guerra in cui solo loro, unici, in
veste di tiranni, si trovavano a proprio agio.
Per loro, l'annuncio di nuovi e potenti bombardamenti era solo una sfaccettatura
della guerra, ma quelli che subiscono siamo noi, noi qui, sommersi dalle notizie che forse altri ponti di Belgrado hanno rischiato la
distruzione durante la notte che doveva seguire alla "tregua", noi che, per poter raggiungere le nostre case, dovremo
probabilmente attraversare a nuoto il Danubio.
Qui, oggi, nessuno pensa al teatro. Qui, oggi, tutti pensiamo all'emigrazione.
Ci sono alcuni che preferiscono restare qui, ora che finalmente sono sfuggiti all'inferno, e ci siamo noi che desideriamo tornare a
casa il più presto possibile, finché ne abbiamo la possibilità. Questo dramma che noi tutti recitiamo, questo
dramma che da mesi si sta svolgendo nella mia patria, appartiene al teatro dell'assurdo divenuto poi teatro del surreale e quindi pura
tragedia che sembra non dover mai finire. Al pubblico, si sa, a lungo andare tutto viene a noia. Gli spettatori si rigirano irrequieti nelle
poltrone, nei vari uffici del potere, aspettando il finale, al limite della pazienza.
Ma noi, milioni di attori catturati e quasi presi in
ostaggio da questo stesso dramma, non riusciamo a scorgerne l'autentica fine, quasi fosse l'ultimo ruolo che reciteremo nella
nostra vita.
(traduzione a cura del Gruppo Logos)
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