Belgrado, la mia vita sospesa tra le bombe e il Dittatore Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic. Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini. © Der Spiegel - La Repubblica.
BELGRADO, PRIMO
GIORNO. Ogni contrasto con se stessi, premesso che sia genuino e coscienzioso,
è fonte di dolore. A me è capitato il primo giorno degli
attacchi aerei. Il dominio, durato dieci anni, di un tiranno classico,
che tratta il suo popolo come plebaglia, ha conseguenze tragiche: tre guerre,
centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi, traumi inguaribili.
Non esiste alcun dubbio sul fatto che Milosevic entrerà nella storia
come un grande criminale, spalla a spalla con i massimi criminali del mondo.
Ma gli uomini di questo triste Paese entreranno nella storia non soltanto
come vittime della sua manipolazione.
Pur essendo contro il principio della "colpa
collettiva" e pur ribellandomi all'opinione che esista qualcosa più
forte dell'individualità degli uomini, alcuni fatti mi rendono,
tuttavia, dubbiosa. La forza distruttrice delle bombe, la morte che esse
portano, la moltitudine di profughi, l'isterismo di massa, la paura costante
e il coraggio della disperazione sono terribili. Ma almeno altrettanto
terribile è l'assenza della semplice autocoscienza umana fra i cittadini
di questo Paese. Nonostante i brogli elettorali, nonostante i metodi di
intimidazione e nonostante l'annientamento dell'economia, essi hanno continuato
a tollerare e mantenere al potere quest'uomo per un intero decennio.
TERZO GIORNO. Nonostante il pericolo
annunciato dell'attacco aereo, nonostante l'obbligo di ritirarsi nei rifugi,
le persone si sono riversate nelle strade. Molti arrivano spontaneamente.
Alcuni si comportano in modo perfino troppo zelante. Sui volti degli altri
leggo l'obbligo a partecipare. Lentamente, mi avvio verso casa.
QUARTO GIORNO. Da quando non ho
più lavoro, le mie giornate si assomigliano: mi alzo presto, vado
al mercato settimanale, ammazzo il tempo fra le bancarelle. Alcuni giorni
prima del bombardamento anch'io sono stata preso dall'isterismo generale
degli accaparramenti. La credenza della mia cucina trabocca di fette biscottate
(che io non mangio), di conserve (per le quali non ho un apriscatole),
di candele, di fiammiferi (anche se esiste la corrente elettrica), di batterie
(per una radio a transistor che non possiedo). Non ho nient'altro da fare:
non leggo giornali, perché, a causa della censura, ripetono tutti
le stesse cose, sono senza lavoro, quindi non guadagno e, per timore di
affrontare più da vicino questa realtà, decido di smettere
completamente di pensare. Cucino "pasti bomba" a mezzogiorno e sera, e
costringo il mio compagno a divorare con me queste quantità esagerate
di cibo.
SESTO GIORNO. Con profitto di guerra
si intende il commercio illegale di valuta e la vendita di sigarette straniere.
Quanto questo sia insensato risulta dal fatto che finora nessuno ha cambiato
denaro in un posto diverso dalla strada. Le banche si attengono al corso
di cambio ufficiale, falso, dimezzato. I venditori di sigarette per strada
costituiscono un elemento quasi iconografico di Belgrado e delle altre
principali città della Serbia. Nei negozi dello Stato vengono vendute
soltanto sigarette nostrane (vero veleno) e sono introvabili. Devo escogitare
qualcosa per cambiare i marchi risparmiati in dinari, che mi servono per
vivere.
DECIMO GIORNO. Iniziata la difesa
speciale delle infrastrutture cittadine. Il governo richiama gli uomini
ad andare sui ponti. I vertici, i boss dei partiti e i loro seguaci partecipano
a questo pericoloso e funesto gioco. Su uno dei ponti si sono radunati
tutti coloro che hanno causato questa sventura. L'eroe di quest'opera,
naturalmente, non c'è, vigilerà gli spazi sotterranei, stando
ben distante da noi comuni mortali.
TREDICESIMO GIORNO. Foto terribili
di fuggiaschi al confine della Macedonia, del Montenegro e dell'Albania.
Uomini che muoiono letteralmente davanti alle cineprese, uomini minacciati
da epidemie per le condizioni di vita inumane, uomini, che - diciamolo
francamente - nessuno vuole. Questi uomini sono albanesi e perciò
qui nessuno vuole sapere niente del loro destino. Si parla di propaganda,
di montaggi fotografici, di disgustose menzogne dell'occidente. Io credo
maggiormente a quello che vedo, premesso di avere la forza di guardare.
Lì vengono commessi - è evidente - crimini terribili.
DICIANNOVESIMO GIORNO. Una notizia
terribile dilaga come un incendio in città. In pieno giorno è
stato ucciso davanti alla porta della sua abitazione Slavko Curuvija. Direttore
e proprietario di un quotidiano indipendente. Questa notizia agghiacciante
e le circostanze non chiarite dell'assassinio mettono in ansia e intimidiscono
la gente a un punto tale che nessuno osa parlarne. Neppure io.
VENTESIMO GIORNO. Gradatamente il
buonumore, che mantenevo a forza, mi ha abbandonato. Non mi piace l'alleanza
con Paesi con cui, tranne che nel buio passato, non abbiamo niente in comune.
Mentre a Essen viene rappresentato il mio lavoro "Trilogia di Belgrado",
che parla di giovani emigranti che hanno lasciato questo Paese a causa
della guerra precedente, comprendo che anch'io sto per diventare una di
loro. Soltanto una questione di tempo, quando abbandonerò la mia
emigrazione interiore per quella reale, lascerò la mia città,
le mie strade, abbandonerò le mie cose e tutto quello che ho conquistato
nella vita. Faccio il bilancio: quale, fra le cose che mi sono potuta offrire,
è la più preziosa? I libri, che ora sono un peso per me,
i mobili, che non valgono la pena di un trasporto, un quadro e una lavatrice.
In tutto questo tempo, una comune lavatrice è stata la mia conquista
più preziosa, frutto di lavoro e fatica. Non è possibile
che bombardamenti così violenti, che l'Europa non aveva più
avuto dai tempi della Seconda guerra mondiale, siano dovuti soltanto a
un comune dittatore, che si può eliminare in migliaia di modi. Un'azione
di soccorso non deve prendere in nessun caso questa forma; se questo è
avvenuto, ci devono essere delle motivazioni più ampie. Logico:
i miei genitori, mia sorella, i miei amici, non vengono con me. Nella mia
vita futura non mi farò più carico di cose che mi leghino,
non voglio più avere una famiglia, amici e mobili.
L'ULTIMA NOTTE. Cielo stellato su
Belgrado, in lontananza si sentono i bombardieri, ha inizio il noto gioco
a computer. Sono seduta sulla mia valigia pronta, i miei pochi oggetti
preziosi sono in una scatola di metallo: biglietti per diversi mezzi di
trasporto, che servono a portarmi via da qui, il mio passaporto con il
visto - il mio bene più prezioso ora. Faccio i conti: ancora un
paio di ore fino alla partenza dell'autobus. Attraversamento di numerosi
confini di Stato e cambio di aereo per tre volte. Fra trenta ore appena
inizia la mia nuova vita. Faccio i conti: i miei migliori amici sanno della
mia partenza, i miei genitori non sospettano niente. Non ho la forza di
accomiatarmi da loro. Li chiamerò dal primo Paese vicino. Addiziono
i fatti, li moltiplico con le emozioni, aggiungo al calcolo l'incognita
- l'equazione non torna.
Che cosa ci guadagno se me ne vado? Sicurezza,
questo è chiaro. I miei amici tedeschi mi fanno un'offerta più
che generosa: la vita in una città meravigliosa, il lavoro, a cui
mi sono dedicata, comodità e tranquillità. Faccio la sottrazione:
che cosa perdo, se ora me ne vado? La paura per la nuda vita, ansietà
esistenziale, timore di un futuro incerto. A questo posso rinunciare. Poi
scatto in piedi, smetto di fare i conti, mi guardo attorno, guardo dalla
finestra, prendo un sonnifero e vado tranquilla a letto.
Mi risveglio a Belgrado. L'autobus e l'aereo
sono partiti - senza di me. Non mi sono mai sentita così bene dall'inizio
della guerra. Mentre bevo il caffè del mattino, circondata dalle
mie cose, rifletto: quale corso avrebbe preso la mia vita, se me ne fossi
andata via? Come avrei potuto continuare a vivere tranquilla, mentre ai
miei parenti più stretti fischiavano nelle orecchie i missili dal
cielo ed erano minacciati dal terrore sulla terra, Milosevic? Come sarebbero
stati in futuro i miei lavori? Come avrei potuto avere la coscienza tranquilla
guardandomi nello specchio, dopo aver lasciato tutto: la mia gente, la
mia città, le mie idee di creare un Paese migliore, la mia attività
di scrittrice, la mia lingua, soltanto per salvare un'esistenza fisica?
Sono certa che quando questo sarà finito, me ne andrò volentieri
a vivere in uno dei Paesi di cui apprezzo la cultura e l'arte. Ma altrettanto
bene so che devo continuare a cercare di fare qualcosa per il mio Paese.
Poi, a mente serena, potrò viaggiare, lavorare, accettare nuove
sfide. Mi alzo e inizio lentamente a disfare la valigia. Mi alzo e resto
qui. Rido.
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