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Ogni giorno mi chiedo perché rimango qui

Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic.

Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini.

© Der Spiegel - La Repubblica.

BELGRADO (9 MAGGIO) - La notte scorsa è stata straordinariamente calma e l'acqua è mancata solo per brevi intervalli, eppure da questa mattina mi chiedo per quale ragione sto ancora qui. Che cosa aspetto, che cosa deve ancora succedere, a quale livello di primitivismo deve ridursi la mia vita quotidiana, per confessare a me stessa che mi hanno vinto e che finalmente me ne devo andare da qui? Negli ultimi mesi, sospettando le cose più atroci, quando immaginavo l'orrore che ci aspettava, mi consolavo dicendomi che, una volta arrivati i tempi più oscuri, sarei partita senza rimpianti.

Era chiaro a tutti quello che stava per succedere, benché nessuno volesse crederlo, e tutta la gente con un minimo di buon senso, pianificava da già un decennio una vita alternativa, una patria di riserva dove trovare rifugio. Da quando è iniziata questa guerra, la gente ha cominciato ad andarsene. Loro se ne vanno, ma io no. Partirò, mi dicevo, quando sarò sicura che i bombardamenti saranno diventati inevitabili. Andrò da uno dei miei tanti amici, che nell'ultimo decennio hanno lasciato in massa la nave che affonda, e che adesso hanno qualche anno di vantaggio su di me, perché si sono già sistemati nella loro nuova vita, lontano da qui. Non ho tagliato i legami con questi amici, siamo rimasti in contatto. Adesso abitano ovunque, in Europa Occidentale, in America, in Africa, dopo essere scappati da ciò che li aspettava.

Avevo deciso di scappare quando avessi visto i diplomatici lasciare Belgrado. Più di una settimana prima che tutto iniziasse, seguivo i traslochi e la chiusura delle ambasciate. Ma io decisi di rimanere. Dicevo a me stessa: non vedrò la prima bomba colpire Belgrado, lascerò tutto per un altro posto. Da allora, non una, ma migliaia di bombe sono cadute, e continuano a cadere sulla mia città e sul mio paese, ma io sto ancora qui. Pensavo che non sarebbe durato, che tutto sarebbe finito di colpo. Sono passate sette settimane, e io sto ancora qui. 

Dicevo a me stessa: se perdo il lavoro, se non avrò più nulla da fare, allora me ne andrò dove poter essere utile a me stessa e al paese nel quale mi troverò. L'università dove insegno è chiusa già da un mese e mezzo, perché gli studenti raramente lasciano i rifugi antiaerei, e perché a nessuno interessa più quello che ho da dire sulla tecnica di scrittura delle commedie. Non lavoro, passo le giornate con le mani in mano, affondo nella depressione, e nonostante tutto sto ancora qui. Avevo deciso che se avessi visto le strade dove mi piaceva passeggiare sparire sotto ai miei occhi, me ne sarei andata per sempre. Il centro della mia città è già da tempo bersaglio degli attacchi aerei, nessun posto è sicuro, ormai non ho neanche più il coraggio di passeggiare per paura di quello che potrei vedere, limito i miei movimenti, però sto ancora qui.

Avevo deciso con buonsenso che me ne sarei andata quando il regime avesse iniziato a fare i conti con i suoi nemici, che non avrei aspettato il momento in cui uno dei suoi sbirri mi avesse denunciato, che non avrei vissuto con la paura che ascoltassero le mie telefonate. Anche questo momento è stato superato, questo limite di umanità cancellato, ma io ancora insisto a rimanere qui. 

Perché resto a Belgrado? Il patriottismo è per me una nozione astratta, e l'appartenenza nazionale provoca in me ripulsione per le possibili conseguenze di questo concetto. La mia adorata città non sembra più se stessa, vuota e distrutta, con la paura che si legge sui visi della gente. La mia faccia è diventata grigia. Nonostante tutto rimango ancora qui. Non so con certezza perché, ma c'è una forza che mi impedisce di andare. Una forza che forse si chiama speranza.

 
 
 
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