Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic. Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini. © Der Spiegel - La Repubblica.
BELGRADO (7 MAGGIO) - Oggi, nella mia città nessuno ha mostrato allegria all'ipotesi di una trattativa di pace, che ancora
non si vede ma che qui tutti aspettano.
Invece, sulle facce si legge confusione, incredulità, e per dire la verità, nessuno
capisce l'essenza di quello che sta
succedendo. Anche perché sembra che l'essenza delle cose non abbia più importanza: non importa ciò di cui
si parla, ma è importante il modo in cui se ne parla. Perciò, la trattativa, a cui spero si arrivi in fretta, è in
realtà la riformulazione dello stesso documento che poteva essere firmato tempo fa, evitando questa tragedia. Nessuno dice
niente con certezza, però le parole che si usano parlano da sole. Quando sono iniziati i raid, tutti i telegiornali della Serbia hanno
ricevuto la lista delle frasi e parole, in maggioranza offensive, che andava usata ogni volta che si menzionavano uomini della Nato.
Criminali, fascisti, nazisti, assassini di bambini, selvaggi, barbari: questa era la terminologia obbligatoria, che si poteva sentire su tutti i
canali della tivù. I giornalisti più ispirati, i più fedeli al regime, contribuivano inventando nuovi insulti senza
senso: troie, finocchi, ermafroditi, ubriaconi, imbecilli e maniaci sessuali (scusate tanta esplicita crudezza), questi erano naturalmente
i leader dei paesi occidentali. Dall'altro lato, Milosevic è diventato "il signor Milosevic" oppure "il
presidente", ma sul resto non si diceva niente. Che cosa significa tutto questo adesso: che gli ermafroditi hanno smesso
di essere ermafroditi, e che il dittatore non è più un dittatore? O gli ubriaconi erano sempre uomini sobri, e i criminali
amanti della giustizia? Ciò non sembra avere nessuna importanza per nessuno, ma importante è che qualcosa
venga finalmente stabilito.
Nel frattempo, in una notte, "la troia" è diventata una donna onesta,
e il "dittatore" un leader. É sempre la stessa gente che prima butta le bombe e che insulta, e poi viene
colta da amnesia, dimenticando tutto ciò che faceva prima. Sto aspettando che la televisione nazionale inizi i suoi
programmi con l'annuncio che questa non è stata una guerra, che le vittime sono vittime di incidenti stradali, che i
profughi non sono profughi ma turisti che ritornano a casa dopo le vacanze. Solo che le case non ci sono più. E che
il paese è completamente devastato. E che i morti non possono tornare. Perché i morti sono morti, qualunque
nome gli diamo.
Da queste parti, l'atmosfera politica si è sempre potuta valutare con i nomi che i genitori davano
ai loro figli. Dopo la Seconda guerra mondiale, i bambini venivano battezzati con i nomi che portavano i leader del momento o i
padri spirituali della rivoluzione sovietica. In Serbia, molti cinquantenni si chiamano Josip e Josif (Giuseppe) come Tito e Stalin,
mentre molte cinquantenni si chiamano Marklena (anagramma di MARKs e LENin). Le generazioni seguenti hanno indicato
l'apertura verso l'Occidente, così i nomi internazionali sono entrati nei libri delle nascite. Quando la famiglia reale è
tornata di moda, i bambini si chiamavano con i nomi dei vari principi ereditari. Alla fine degli anni Ottanta e all'inizio degli anni
Novanta, con l'aumento del nazionalismo, sono tornati di moda i nomi degli eroi medievali, delle imperatrici bizantine e dei santi
della Chiesa ortodossa. Qua e là, come segno di protesta, qualcuno dava al suo bambino il nome Branimir (quello che
difende la pace), e come risposta qualcun altro dava il nome Ratko (composto dalla parola "rat" che significa
guerra in serbo). Con il nuovo sviluppo degli eventi non mi stupirebbe se la nuova generazione di bambini avrà nomi
come Victor (Cernomyrdin), Stealth (aereo colpito), PVO (in serbo, difesa contraerea), oppure Chelsea (come la figlia di Clinton).
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