Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic. Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini. © Der Spiegel - La Repubblica.
COLONIA (5 GIUGNO) - La cena di ieri
sera con i vecchi amici, qui a Colonia, ha avuto un solo tema: la fine
della guerra in Jugoslavia. Da lunga data frequento questi amici di Colonia;
siamo molto uniti, conosciamo i nostri segreti più intimi, eppure
non abbiamo mai parlato di ciò che, in questo momento, ci lega maggiormente:
l'ormai mitico senso di responsabilità collettiva, le loro esperienze
di tedeschi, le mie di serba. Stavamo discutendo sul teatro tedesco da
veri intenditori tedeschi, quando repentinamente, e per la prima volta
nella mia vita, ho posto la domanda: "Che cosa significa veramente la rinuncia
al nazismo? Come è vissuta nella vita quotidiana, come va spiegata
alla generazione post hitleriana, come si convive, oggi, con questa idea?".
E' un tema che mi ossessiona. "Ti senti
colpevole dei crimini della tua terra?", ho chiesto senza preamboli alla
mia coetanea tedesca. Sono stata impulsiva, le ho quasi gettato in faccia
la domanda diretta e poi mi sono fermata pensando che non era quello il
modo giusto di porla e che forse l'avevo offesa. Perciò mi ha meravigliato
la semplicità con cui mi ha risposto: "Il popolo tedesco ha scelto
Hitler e questo è un fatto inconfutabile". "Per tutta la vita porterò
con me questa consapevolezza", ha concluso e mi ha servito un caffè
italiano.
In quel momento ho iniziato a spiegare,
a parlare della mia posizione, della gente del mio Paese che non è
colpevole, che non sostiene la guerra, che soffre molto di una situazione
non voluta. Nella foga del discorso, andavo impastoiandomi sempre di più
in una difesa di cui io stessa non ero convinta; un senso di malessere
mi ha indotto a tacere. "Il popolo serbo ha scelto Milosevic", ha aggiunto
la mia amica e mi ha lasciato così, con i miei dubbi irrisolti.
Tornando a casa, dopo cena, sono passata accanto ad una chiesa distrutta.
Mi sono girata a guardare intorno a me. La città che ha subito le
maggiori devastazioni di questa regione è ora una bellissima metropoli,
piena di gente di diverse nazionalità. Ad ogni passo m'imbatto in
diverse lingue e diverse usanze. La chiesa distrutta è rimasta quale
monito, un ammonimento per tutti coloro che non sono come la mia amica.
Pensavo a ciò che la mia terra dovrà affrontare, ossia una
ricostruzione difficile e travagliata, impossibile senza grandi investimenti.
Pensavo anche alla ricostruzione della mia propria coscienza, alla cola
con la quale tutti noi esseri umani dobbiamo confrontarci.
Una parte del nostro intimo rimarrà
distrutta per sempre, come quella antica chiesa. In tutti noi resterà
quel monito, segno della superficialità con cui ci definivamo, invito
alla serenità che possiede la mia amica tedesca. Mi auguro che tutti
sapremo diventare come lei, consapevoli del ruolo giocato in questa faccenda,
certi che una simile tragedia non si dovrà ripetere mai più.
Ma dubito che le potenze vincitrici della guerra rifletteranno sul loro
coinvolgimento. La loro coscienza, credo, resterà ibernata, non
toccata, indifferente, fino alla prossima occasione di riaffermare come
la forza sia l'unica lingua di comunicazione.
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