La giornalista Paulette Cooper, autrice del libro Lo Scandalo Scientology del 1972 (prima grande inchiesta giornalistica sul movimento dianetico), racconta le molestie subite dagli agenti dell'organizzazione di L. Ron Hubbard.
© Di Paulette Cooper, 1982.
A metà Febbraio ricevetti una richiesta di comparizione davanti al Gran Giurì. Ero eccitata e lusingata, perché pensavo che il Governo stesse raccogliendo prove sulla falsa denuncia di Meisler relativa alle minacce di bomba, e volesse sapere alcune cose sul gruppo a cui apparteneva, o le origini della nostra "faida". Perciò immaginai che mi avessero chiamato come testimone esperto o qualcosa del genere, e non mi presentai neanche con un avvocato. Il mio fidanzato Bob, in ogni caso, era un avvocato penale e mi consigliò di non aprire bocca senza un legale finché non fossi sicura che non ero il "bersaglio" dell'inchiesta. Al Gran Giurì Gordon mi rivelò, con mio enorme stupore, che ero l'oggetto dell'inchiesta. Caddi quasi morta stecchita quando aggiunse che se fossi stata condannata rischiavo fino a quindici anni di galera! Penso che il mio vero incubo ebbe inizio in quel momento (John Gordon era l'Assistente Legale della Procura degli USA). Pietrificata dallo spavento cominciai a cercare degli avvocati - nessuno dei quali mi chiese meno di 5.000 dollari di acconto! Chiamavano Gordon e scoprivano che il Governo aveva alcune "prove molto serie" sul mio conto - ma nessuno volle rivelare di quali prove si trattasse. Nemmeno le date in cui le due presunte minacce di attentati che si supponeva avesse ricevuto Meisler fossero state spedite (avevo viaggiato abbastanza come scrittrice, e avrei potuto fornire prove immediate di non essere stata io a inviarle). Ero sconvolta all'idea di dover assumere un avvocato costoso per difendermi da qualcosa che non sapevo neppure cosa fosse. E poi ogni legale cominciava a buttare lì parole come "indiziata" (basate su lettere che non avevo visto, imbucate in date che non conoscevo, basate su prove di cui il Governo non mi faceva sapere nulla), e non so che cosa fosse più grande: la mia rabbia di fronte all'ingiustizia o il panico al pensiero delle possibili conseguenze.
Assunsi una squadra di prestigiosi avvocati penali ex AUSAs - Morrison, Paul, Stillman & Bailey (quest'ultimo non aveva relazioni), pagai mi pare metà dell'acconto di 5.000 dollari (il resto mi fu prestato dai miei genitori), e lavorai prevalentemente con un sanguinario figlio di puttana di nome Jay. Prima del successivo Gran Giurì Jay mi suggerì di fare una prova alla "macchina della verità", e, essendo all'epoca così ingenua da pensare che questo strumento funzionasse veramente, accettai. Scelsero uno degli studi più prestigiosi del paese, Richard Arthur. Tuttavia il test risultò inconcludente, e l'esaminatore ritenne che, a causa della mia sensibilità alle sfumature di significato delle diverse parole (come scrittrice), ricadevo nella categoria di persone che non possono essere testate alla "macchina della verità". [1] [1] Non passai il test di controllo, che consisteva nel guardare un foglio di carta rosa che aveva un bordo blu, e dire: "Sì, è rosa". Notavo ancora il blu, e così non mi sembrava corretto rispondere "Sì, è rosa".
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