La cancellazione del reato di plagio non può essere ovviamente intesa come
negazione del plagio sul piano fenomenico, che resta una realtà nell'ambito
dei rapporti interpersonali. Senza alcun rimpianto per la fattispecie abolita, che
era giuridicamente evanescente ed insostenibile e fonte di possibili errori ed abusi
in sede giudiziaria, occorre dunque riconoscere che si è realizzato un vuoto
di tutela della personalità nei riguardi delle dinamiche plagiarie.
L'autore
Francesco De Fazio è il direttore dell'Istituto di Medicina Legale, della Scuola
di specializzazione in Medicina legale e della Scuola di specializzazione in Criminologia
clinica dell'Università di Modena.
Relazione
Questo Convegno ripropone e in un certo senso attualizza le polemiche che hanno fatto
seguito all'eliminazione del reato di plagio dall'ordinamento penale italiano e che
hanno visto contrapposte tesi favorevoli e sfavorevoli alla sentenza della Corte Costituzionale
n. 98 dell'8 Giugno 1981.
Non si tratta ovviamente di rimettere in discussione, a tanta distanza di tempo, le
decisioni della Corte Costituzionale, che rappresentano ormai un punto fermo ed immodificabile
nel nostro ordinamento giuridico, ma soltanto di chiarire che la cancellazione del
reato di plagio, così com'era formulato dall'art. 603 C.p.,
non può
essere ovviamente intesa come negazione del plagio sul piano fenomenico.
Il problema è anzi quanto mai attuale, posto che il plagio e le dinamiche plagiarie
costituiscono, oggi più che in passato, una realtà sul piano dei rapporti
interpersonali, con concreti rischi nei confronti della libertà individuale
ed in particolare nei confronti della salvaguardia dell'identità personale.
La questione è dunque "aperta", e bene hanno fatto gli organizzatori di questo
Convegno a metterla in discussione.
Io intervengo su un tema che, a prima vista, potrebbe apparire estraneo agli interessi
del Convegno, rientrando invece a pieno titolo nella materia in discussione. Intendo
far riferimento alla c. d. "circonvenzione di incapace" e desidero precisare che i
motivi che mi inducono a delimitare a tale settore il mio intervento sono di ordine
generale, di carattere
contingente e di ordine
metodologico.
Quanto ai motivi di
ordine generale, mi limito a far presente che la persuasione
socialmente accettata, il plagio ed il lavaggio del cervello riflettono un'infinità
di situazioni che, ovviamente, nulla hanno a che fare con l'ambito dei reati.
Nella società in cui viviamo siamo tutti più o meno manipolati dai massmedia
e dalle mode in particolare. Il risultato è quello del conformismo, perseguito
sovente all'insegna dell'anticonformismo. Da questo punto di vista, non avrebbe dunque
senso mettere in discussione in questa sede il problema della circonvenzione di incapace.
Ci sono però motivi di carattere per c. d. contingente, che ci inducono a riflettere
su questo problema: posto che ad esempio recentemente, in relazione ad un clamoroso
caso giudiziario, si è realizzato un vasto movimento d'opinione volto all'abrogazione
del reato di circonvenzione di incapace, movimento sostenuto da ripetuti appelli da
parte di uomini di cultura e di
opinion leaders. Si è cioè verificato
quanto è avvenuto negli anni '70, allorché, in rapporto al noto caso
Braibanti, sì è sviluppata una polemica che ha preceduto la dichiarazione
di illegittimità costituzionale dell'art. 603 C.p.
In presenza di giuristi così qualificati e, soprattutto, in presenza dell'On.
Avv. Leonetto Amadei, che era Presidente della Corte Costituzionale allorché
fu emessa l'ordinanza n. 96 dell'8 Giugno 1981, non sta a me delineare la distinzione
fra le due fattispecie.
Mi limito soltanto a rilevare che il reato di plagio presupponeva un totale ed illimitato
stato di soggezione, tanto che si qualificava nei delitti contro la persona (titolo
XXII del libro Il C.p.), ovvero tra i delitti contro la libertà individuale
(capo III del titolo XXII) e, in particolare, tra i delitti contro la personalità
individuale (sez. I del capo III sopracitato), al pari della riduzione in schiavitù,
della tratta, commercio, alienazione ed acquisto degli schiavi. Mentre la circonvenzione
di incapace (cfr. art. 643 C.p.) rientra tra i delitti contro il patrimonio ed in
particolare tra i delitti contro il patrimonio mediante frode (cfr. capo Il del titolo
XIII, libro Il C.p.), al pari della truffa, dell'insolvenza fraudolenta, dell'usura,
dell'appropriazione indebita, della ricettazione, ecc.
Ma a parte le differenze sostanziali sul piano giuridico, giova rilevare che le differenze
sono altrettanto sostanziali sul piano psicologico.
Il plagio, infatti, concerneva i casi di sottoposizione di una persona al proprio
potere, mentre le ipotesi riconducibili alla circonvenzione di incapace non configurano
un totale ed illimitato stato di soggezione, ma vari e diversi meccanismi di coazione
della volontà e di cooptazione del consenso, volti ad indurre una persona a
compiere un atto che comporti qualsiasi effetto giuridico per sé o per altri
dannoso.
In poche parole, il reato di circonvenzione di incapace rappresenta una forma di aggressione
del patrimonio, che passa attraverso il consenso del soggetto passivo, il cui potere
critico è attutito dalla debolezza psichica, ma non del tutto assente. L'attività
persuasiva, infatti, si concretizza nel fornire dati da vagliare e da elaborare che,
attraverso la psiche, siano in grado di influire sulla volontà, spingendo la
vittima a compiere l'atto decisivo degli effetti patrimoniali. È però
la cooperazione del soggetto passivo che rende realizzabile l'obiettivo perseguito
dal soggetto circonventore (cfr. sent. Tribunale di Milano, Sez. Il penale, del 17
luglio 1986, n. 23499/86 R. G.).
Non è dunque legittima, ed appare anzi artificiosa, la sovrapposizione delle
due fattispecie che è stata operata recentemente dai massmedia. Né ci
sembra corretto dichiarare che i principi contenuti nella sentenza della Corte Costituzionale
n. 96 dell'8 Giugno '81 possano essere ritenuti generalmente idonei ad individuare
la corrispondenza fra qualsiasi fattispecie penale stabilita dalla legge con il principio
di legalità, che comunque deve caratterizzare la funzione punitiva, come si
afferma nella proposta di legge di iniziativa dei Deputati Mellini, Piro, Biondi ed
altri (d.d.l. n. 3917, Camera dei Deputati, X legislatura).
Posto che la struttura del reato di circonvenzione di incapace non ricalca affatto
quella del plagio, non ritengo dunque si debba condividere l'asserita evanescenza
dell'individuazione della condotta, che non consiste, come affermano i relatori del
d.d.l. sopra richiamato, nella mera "produzione di un atteggiamento", ma, al contrario,
si concretizza e si perfeziona nella realizzazione di un "abuso".
Nella proposta di legge sopra richiamata, le considerazioni che motiverebbero l'abrogazione
dell'art. 643 C.p. vertono sostanzialmente sull'asserita impossibilità di accertare
"... una determinazione della psiche altrui senza alcun riferimento a specifiche modalità
strumentali sulla produzione di tale influenza". Quanto sopra detto dimostra che appare
del tutto specioso il richiamo alla non più vigente fattispecie criminosa del
plagio, quale elemento che motiverebbe l'abrogazione dell'art. 643 C.p.: salvo ad
ipotizzare un vuoto di disciplina penale in riferimento a forme di abuso con effetti
dannosi sul patrimonio che possono realizzarsi nell'ambito dei rapporti interpersonali,
sia pure con la cooperazione della vittima, indotta da meccanismi suggestivi. Vuoto
che lascerebbe la persona più debole alla mercé di quella più
dotata, la quale potrebbe impunemente mettere in opera meccanismi persuasivi e suggestivi
tali da diminuirne i poteri di difesa e da condizionarne la volontà. Si tratterebbe
di una svolta di politica criminale molto rischiosa, che non può certo essere
motivata dall'asserita difficoltà o aleatorietà delle valutazioni psichiatrico-forensi.
Siffatte considerazioni introducono i motivi di carattere
metodologico, che
sono quelli che maggiormente mi hanno indotto a delimitare il mio intervento all'ambito
della circonvenzione di incapace: posto che sul piano psicopatologico e, in particolare,
sul piano psichiatrico-forense, il giudizio in tema di circonvenzione riconduce necessariamente,
in ordine "alle specifiche modalità strumentali volte a valutare la produzione
dell'influenza sulla psiche altrui", alla valutazione del rapporto interpersonale
tra supposto autore e supposta vittima.
Com'è noto, la perizia psichiatrica in tema di circonvenzione di incapace è
diretta a stabilire l'eventuale stato di infermità o di deficienza psichica
della supposta vittima. Ma l'accertare un'infermità o una deficienza psichica
della presunta vittima nulla di più significa che acquisire elementi sulla
"circonvenibilità" e non sulla "circonvenzione", la cui configurazione dipende
in massima parte dalle prove che è possibile acquisire nei riguardi dell'"abuso".
Vale a dire che nelle perizie in tema di circonvenzione di incapace è ravvisabile
un primo livello di indagine, che concerne appunto la diagnostica delle eventuali
condizioni di infermità o di deficienza psichica della supposta vittima. Questo
primo livello di indagine è volto a stabilire l'eventuale esistenza di una
condizione personologica della supposta vittima atta a configurare l'eventuale circonvenibilità,
ma non consente di delineare né tanto meno di cogliere la realtà e la
vera essenza della dinamica delittuosa.
La perizia psichiatrica, oltre a comportare un primo livello di indagine volto a definire
le caratteristiche di personalità della supposta vittima, al fine di dedurne
in astratto la circonvenibilità, deve però necessariamente articolarsi
in un successivo livello di indagine, volto a ricostruire ed analizzare il rapporto
personale tra supposto autore e supposta vittima. Tale indagine si rende per stabilire
se si è realizzata o meno una dinamica in virtù della quale la volontà
di una persona si è imposta su quella dell'altra, viziata per infermità
o per deficienza psichica, al punto da determinarne le direttive e da costringerla
ad agire in contrasto con gli interessi propri ed altrui.
Al riguardo la giurisprudenza ha ampiamente chiarito che la "coazione non deve sostituire
la volontà, ma deve muoverla, insinuando nell'animo una rappresentazione che
assume efficacia motivante" (Cass. 2 Luglio 1981, Petracca, in Riv. Pen., 1982, p.
429), e la prassi psichiatrico-forense documenta che la valutazione del rapporto interpersonale
si qualifica come momento metodologicamente determinante ai fini di detto giudizio.
Ciò vale soprattutto in riferimento all'ipotesi di "deficienza psichica", la
quale, com'è noto, non può essere intesa in termini assoluti. Il legislatore,
volendo distinguere dall'infermità la deficienza, l'ha del resto assimilata
ad uno stato di "inferiorità": "... condizioni psichiche... che rivelano nel
soggetto uno stato di inferiorità che può essere sfruttato, con una
maggiore facilità, da chi ne conosce la portata" (cfr. la relazione del Guardasigilli,
in Lavori preparatori del Cod. pen. V, p. Il, Roma, 1929).
Si tratta, dunque, di un concetto squisitamente giuridico, assolutamente sconosciuto
nella psichiatria clinica e di accezione molto lata, comprendendo tutte le condizioni
tali da agevolare la suggestione esercitata dal supposto circonventore sulla volontà
del soggetto passivo, indipendentemente da specifici stati morbosi clinicamente identificabili.
Nell'ambito dei rapporti umani l'inferiorità, come del resto la superiorità,
sono relative ad un determinato rapporto interpersonale, sovente irripetibilmente
collocato in un dato ambiente e in dato momento storico. La condizione di deficienza
psichica, non suscettibile di inquadramento nosologico, non può dunque essere
isolata in astratto, prescindendo dalla ricostruzione del rapporto interpersonale
nell'ambito del quale si è realizzata. La ricostruzione di detto rapporto si
rende dunque indispensabile per stabilire l'esistenza di una condizione di "inferiorità",
nel che si concretizza la deficienza psichica della presunta vittima. Ciò,
ovviamente, rappresenta il presupposto indispensabile per stabilire se sono stati
messi in opera processi suggestivi e di induzione, realizzandosi così le condizioni
favorevoli all'effettuazione del reato, la cui configurazione dipende, ovviamente,
dalla prova che è possibile acquisire nei riguardi dell'abuso.
Ne scaturisce una prospettiva di indagine psichiatrico-forense che non si basa sul
semplice raffronto tra personalità dell'agente e personalità della vittima,
ma presuppone un'analisi del contenuto della suggestione, con riferimento alle capacità
di introspezione ed alla impostazione volitiva della personalità della supposta
vittima, ovvero in rapporto alle dimensioni diafenomeniche e transfenomeniche della
personalità del suggestionato.
Vale a dire che il procedimento che porta alla valutazione di un particolare rapporto
interindividuale, indispensabile ai fini di stabilire l'avvenuta circonvenzione o
meno, passa attraverso operazioni di analisi, di raffronto e di sintesi che non si
esauriscono nell'ambito peritale. Tanto più ove si tenga conto del divieto,
sancito dall'art. 314 C.p.p. e riproposto dal nuovo C.p.p, relativo ad indagini sulla
personalità dell'autore di reato; e considerato, peraltro, che in base alle
attuali norme di procedura penale il giudice potrebbe pervenire direttamente alla
valutazione, senza esperire l'indagine peritale.
La complessità dei problemi che l'accertamento del reato di cui all'art. 643
c. p. propone non può tuttavia essere esasperata, posto che anche per altri
reati quali ad es. i delitti sessuali, la truffa, ecc., non è possibile cogliere
la dinamica delittuosa al di fuori di un'attenta analisi dei rapporti interpersonali.
Le difficoltà valutative non possono dunque motivare il restringimento dell'intervento
penale soltanto alle situazioni di abuso "nei riguardi di un minore o di una persona
interdetta o inabilitata, o che versi in condizioni tali da comportare inabilitazione
o interdizione", come si prefigura nel d.d.l. sopra richiamato.
Ciò, a prescindere da ogni altra considerazione, in quanto non è lecito
dedurre elementi a carico dell'agente in funzione esclusiva delle caratteristiche
psichiche della vittima isolatamente considerata.
Da qui l'auspicio che da questo Convegno derivino spunti utili per una migliore puntualizzazione
dei problemi metodologici psichiatrico-forensi in rapporto ai reati la cui dinamica
si basa essenzialmente su un particolare rapporto tra autore e vittima.
Un cenno a parte meritano, in questo contesto argomentativo, il riferimento a quelle
particolari situazioni che si vengono a realizzare nell'ambito dei rapporti interpersonali
caratterizzati da un dislivello dei valori e dei ruoli potenzialmente attribuibili
ai due protagonisti dell'"incontro".
Intendo riferirmi a situazioni che ineriscono a rapporti interpersonali del tutto
particolari, di carattere strettamente privato, che si instaurano in particolari situazioni
di vita tra persone portatrici di bisogni e di aspettative e persone dotate di carisma
"da status", come ad es. fra credente e sacerdote, tra discente ed insegnante, o,
più semplicemente, tra paziente e medico o tra cliente ed avvocato. Si tratta
di situazioni in cui si realizza una condizione per così dire spontanea e naturale
di soggezione o di dipendenza, e di possibile suggestibilità. Vale a dire,
situazioni in cui possono obiettivamente realizzarsi condizioni di svantaggio per
uno dei due protagonisti dell'incontro, ovvero, per usare le già richiamate
parole del legislatore, "...condizioni psichiche che rivelano nel soggetto uno stato
di inferiorità che può essere sfruttato, con maggior facilità,
da chi ne conosce la portata".
Fra le situazioni di carattere professionale, tipica è al riguardo la relazione
che si instaura nel rapporto psicoterapeutico, che com'è noto comporta una
condizione di soggezione e di dipendenza del paziente dal terapeuta. Si tratta, ben
inteso, di una condizione mutevole da caso a caso, da considerarsi peraltro di per
se stessa positiva, in quanto rappresenta la premessa della terapeuticità del
rapporto psicoterapico. Il problema pertanto non si pone, ovvero non dovrebbe porsi,
in rapporto alla psicoterapia correttamente intesa, sia essa ad indirizzo analitico
o meno; così come ad esempio non si pone, nel rapporto tra medico e malato,
il problema di un uso volutamente distorto della prescrizione dei farmaci, che pure
sono potenzialmente dannosi.
Ma ove si prospettasse l'ipotesi di uno psicoterapeuta che utilizzasse la particolare
natura del rapporto per mettere in atto azioni persuasive, al fine di sfruttare le
particolari condizioni del paziente ed indurlo ad atti patrimoniali pregiudizievoli,
sarebbe giocoforza riconoscere che, in un rapporto di terapia basato sul "transfert",
vale a dire su un tipo particolare di suggestione terapeutica, la condizione di "circonvenibilità"
si realizza in virtù dello stesso "rapporto", oltre che in relazione all'eventuale
stato psicopatologico del paziente. Infatti, quanto più è efficace il
transfert, quanto più esso si realizza in riferimento ad un soggetto "disturbato"
e con connotazioni psicopatologiche, tanto più si crea un rapporto in cui una
figura idealizzata come carismatica ed onnipotente può esercitare in maniera
sottile, subdola ed insidiosa, pressioni psicologiche dirette a forzare e a coartare
la volontà.
A noi non interessa in questa sede stabilire se ciò sia mai accaduto o se sia
o meno avvenuto in un determinato caso giudiziario del quale attualmente si discute
molto, ma ci interessa certamente esaminare in astratto il problema, con riferimento
a forme di "manipolazione" che ovviamente travalicano i limiti della manipolazione
terapeutica.
È pacifico che il fine della psicoterapia non è certo quello di abusare
del paziente, per cui il problema non si dovrebbe neppure porre. Ma se e in quanto
un abuso si realizzi, con riferimento ad uno psicoterapeuta che si avvalesse della
particolare complessa relazione con il paziente per raggiungere uno scopo indebito,
che ovviamente fuoriuscirebbe dall'ambito contrattuale che deve caratterizzare e delimitare
i rapporti fra psicoterapeuta e paziente, non si potrebbe fare a meno di rilevare
lo stato di dipendenza e di suggestibilità del paziente, rapportato al dislivello
di valori e di ruoli attribuibili ai due componenti la coppia terapeutica, e di per
se stesso tale da configurare una condizione di inferiorità psichica relativa,
ovvero di "deficienza psichica". Condizione che depone
in re ipsa per la circonvenibilità,
salvo l'accertamento e la prova dell'"abuso" ai fini del giudizio di avvenuta circonvenzione
di incapace.
Il problema che si va dibattendo nella stampa in questi giorni merita dunque la massima
attenzione nella prospettiva dell'etica, della deontologia e della responsabilità
professionale concernente la relazione terapeutica.
Al riguardo ritengo che gli psichiatri ed i medici legali dovrebbero dedicare maggiore
attenzione alla problematica dell"'abuso" in rapporto alla psicoterapia, ovvero in
riferimento ad un rapporto che di per se stesso può delineare una condizione
dì "circonvenibilità".
Il tema, com'è noto, è da tempo all'ordine del giorno dell'Associazione
Psichiatrica Americana, e, come ho avuto modo di dire e di scrivere in altra sede,
andrebbe adeguatamente e serenamente approfondito anche nel nostro Paese, nel contesto
delle ricerche tendenti a definire e ad illustrare l'ambito delle responsabilità
professionali dello psichiatra. Ciò non per alimentare un clima di caccia alle
streghe, quale talvolta si verifica in altri settori della medicina, ma per cercare
di invertire una tendenza che porta ad attribuire allo psichiatra responsabilità
che qualificano e caratterizzano la sua operatività più sul terreno
del controllo sociale che non sul terreno della professionalità.
Avviandomi a concludere, segnalo la necessità di distinguere, quanto ai fini
ed agli effetti, le diverse situazioni in cui si realizzano condizioni di soggezione
psichica, tenendo ovviamente conto delle situazioni di danno in concreto, più
che del pericolo che inerisce in astratto alle dinamiche plagiarie.
Con la sentenza n.98 dell'S.6.1981 della Corte Costituzionale, sono stati infatti
celebrati irrevocabilmente i funerali dell'art. 603 C.p., ovvero del reato di plagio
ma non del plagio, che resta una realtà nell'ambito dei rapporti interpersonali.
Senza alcun rimpianto per la fattispecie abolita, che era giuridicamente evanescente
ed insostenibile e fonte di possibili errori ed abusi in sede giudiziaria, occorre
dunque riconoscere che si è realizzato un vuoto di tutela della personalità
nei riguardi delle dinamiche plagiarie , vuoto che andrebbe in qualche misura
colmato, come suggeriscono le interessanti ipotesi di "ingegneria giuridica" brillantemente
prospettate dal Prof. Flora.
Note
[1] DE FAZIO F.,
Sul rapporto interpersonale fra autore
e vittima nel reato di circonvenzione di incapace, Atti del XXII Congresso nazionale
della Società Italiana di Medicina legale e delle assicurazioni (Roma, 14-18
ottobre 1971), Ed. Giuffré, Milano, 1971.