La ricerca della salute mentale non
è una "religione"
Elio Bromuri
Nel groviglio delle sette e delle nuove
religioni che si vanno diffondendo nel mondo la "Chiesa di Scientology"
spicca per efficienza, con i milioni di copie delle sue pubblicazioni tra
le quali spicca il best seller di L. Ron Hubbard "Dianetics, La Scienza
moderna della salute mentale", che costituisce la "bibbia" del movimento.
Molta visibilità ha acquistato questa chiamiamola "setta", (anche
se il termine non mi piace, ma non mi sembra giusto neppure che si autoproclami
una Chiesa,) anche per i numerosi processi che hanno dovuto subire alcuni
suoi dirigenti in tutte le parti del mondo.
Ha destato scalpore e scandalo il caso
dell’ultimo processo concluso a Lione in Francia con la sentenza di secondo
grado che ha attenuato la pena ad alcuni dirigenti accusati di essere coinvolti
nella responsabilità di un suicidio di un loro adepto. Ciò
che ha destato soprattutto meraviglia è l’affermazione della corte
d’appello di Lione secondo cui la Chiesa di Scientologia ha il diritto
di definirsi una "religione", di sviluppare le sue attività e di
fare proselitismo e missione come qualsiasi altra Chiesa e fede religiosa
e tale libertà di credere ("la liberté de croyance") è
assoluta, e garantita dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Così si ragiona in Francia. Non
così in Germania, dove Scientology, che conta circa 70 mila seguaci,
viene considerata una setta pericolosa per le istituzioni statali nelle
quali tende ad infiltrarsi e per condizionarle e viene pertanto privata
di ogni agevolazione fiscale e commerciale.
Chi ha ragione? E’ difficile dirlo, e comunque
si devono distinguere i piani del discorso, un conto è l’ordine
pubblico e l’interesse generale della società e un conto è
il discorso religioso. Gli Stati fanno bene a guardarsi intorno per controllare
i gruppi e le associazioni di ogni genere anche quando si ammantano di
titoli religiosi e di pratiche rituali per evitare che vi siano raggruppamenti
di delinquenti o di folli e di squilibrati che si votano al suicidio collettivo
o alla strage collettiva come è accaduto negli Stati Uniti, in Giappone
e in Europa. Non ha titoli invece lo Stato a giudicare da un punto di vista
"teologico" o ecclesiologico chi si può dire Chiesa e chi è
una setta e cosa questo significa.
Nel caso di Scientology però mi
sembra che vi siano i criteri per stabilire che non si tratti di una Chiesa
e di una Religione. Basterebbe ritornare a leggere quella che ho chiamato
la "bibbia" del movimento per convincersi che si tratta di un sistema di
tipo psicologico per "riuscire" nella vita, per "realizzare" se stessi,
per superare le proprie paure e non lasciarsi prendere dalla depressione,
per essere "felici", insomma per raggiungere la "salute mentale".
Tutte cose buone e positive nelle intenzioni
e nelle promesse che Scientology offre a piene mani, ma questo non è
religione, perché non ha un riferimento alla trascendenza e non
è neppure Chiesa perché il fine primario non è la
via della salvezza, ma la via del successo.
Non entriamo nella questione dei metodi
di proselitismo e di pressione psicologica, lavaggio del cervello o meno,
che sono da denunciare da chiunque e per qualsiasi fine vengano praticati.
Non basta dire che i seguaci erano liberi nel momento in cui hanno aderito
al gruppo. La vera condizione di libertà si ha quando si può
uscire dal movimento senza minacce e conseguenze negative.
Una cosa comunque certa è che il
campo del supermercato delle religioni rischia di fare gravi danni all’autentica
fede religiosa, che non potrà essere contenuta e difesa dall’esterno,
ma solo dalla testimonianza coraggiosa dei credenti.
Chi decide cosa è "religione"
in uno Stato laico?
Pier Giorgio Lignani
A chi spetta stabilire se un gruppo, un
movimento, una dottrina, possono essere considerati una "religione"? E’
ammissibile che sia un giudice dello Stato laico a pronunciarsi? Che autorità,
quali strumenti, ha il giudice? E quale legge gli dà i riferimenti
necessari?
Tutti questi interrogativi nascono dal
recente episodio di un tribunale francese che ha riconosciuto al movimento
di Scientology il carattere di "religione" e su questa base ha assolto
i suoi esponenti da varie accuse.
Paradossalmente, il giudice dello Stato
si trova a dover giudicare in fatto di religione proprio perché
lo stato è laico, tollerante e pluralista. Negli stati confessionali
del passato (e curiosamente il fenomeno potrebbe ora ripetersi in Russia)
non vi è nessun problema: una sola è la religione riconosciuta,
le altre sono vietate o mal tollerate, ed è l’autorità religiosa
a dire a quella statale chi è "dentro" e chi è "fuori". Lo
stato laico, tollerante e pluralista accetta (almeno in linea di principio)
tutte le religioni e non ne privilegia nessuna. Dunque non ha più
accanto a sé un’autorità religiosa "ufficiale" cui delegare
le decisioni in questa materia. A questo punto lo stato si trova di fronte
ad un bivio: o decidere d’ignorare totalmente il fatto religioso in quanto
tale, vale a dire di non attribuire alcuna rilevanza al carattere religioso
di un gruppo o di una dottrina (e così trattare chiese e sette come
associazioni private, al pari dei circoli degli scacchi) o decidere di
trattare le confessioni su un piano di parità, ma differenziandole
in qualche modo - tutte insieme - rispetto ai gruppi di altro genere.
La prima soluzione, quella della laicità
totale, può sembrare la più liberale, ma di fatto non lo
è: una sua applicazione coerente porta a comprimere la libertà
religiosa, ad esempio negando l’assistenza religiosa negli ospedali e nelle
carceri, negando ai credenti il diritto di assentarsi dal lavoro per le
festività religiose, negando, alla fine, ogni manifestazione pubblica
di culto. La migliore è la seconda soluzione: quella che, senza
privilegiare una religione rispetto all’altra, riconosce la specificità
delle espressioni religiose rispetto ad altre espressioni della personalità
umana ed accorda loro spazi di libertà e di autonomia, nonché
una certa tutela (ad es. la repressione della bestemmia e dell’oltraggio;
agevolazioni fiscali per le offerte; ecc.) in condizioni di parità.
Ma qui viene il paradosso: lo stato che
vuol tutelare attivamente la libertà religiosa si trova prima o
poi a dover stabilire "chi" è religioso e chi non lo è. Per
dare ad un gruppo lo statuto di "religione" (con relativi diritti) basta
che quel gruppo si autodefinisca tale? Ed è sufficiente autodenominarsi
"chiesa"? In un mondo in cui pullulano le confraternite del vinsanto e
del tartufo e i devoti di Elvis Presley il pericolo di confusione è
reale. E lo è anche quello delle truffe.
E’ dunque necessario decidere. Ma è
anche difficile: perché nel costruire la griglia dei requisiti occorrenti
per avere la patente di "religione" si rischia o di farla su misura per
un gruppo di religioni discriminando le altre (ad es. stabilendo che è
religione solo quella che riconosce un Dio personale che si rivela agli
uomini con un suo messaggio) o di farla talmente elastica da farvi rientrare
praticamente tutto. Anche qui, insomma, si vede che coniugare libertà
e giustizia, uguaglianza e razionalità, equità e diritto,
è un compito terribilmente difficile per chi fa leggi e per chi
le applica.