Diventai Deng Tiannuo nel 1968.
A quel tempo la Cina era nel mezzo della
Rivoluzione Culturale e Mao a Pechino era la scintilla che accendeva la
fantasia della gioventù occidentale ispirata dal suo messaggio antiautoritario.
Vista da lontano, la Cina appariva come
il paese più creativo e Mao un genio impegnato nel più grande
esperimento di ingegneria sociale che l'umanità avesse mai tentato:
la ricerca di una società più giusta e più umana.
Da che mondo è mondo le giovani
generazioni si sono sempre lasciate affascinare dalle idee nuove e spesso
hanno dimenticato di considerare le conseguenze che quelle causano nella
pratica. La mia generazione non fu da meno e molti furono affascinati dalla
grande illusione rappresentata da Mao e dalla sua Cina. Se il nostro era
un mondo vecchio e imperfetto, se le speranze del passato erano state frustrate,
ecco una nuova occasione. La Cina non sarebbe stata un'altra Unione Sovietica
o un'altra Cuba. La Cina era qualcos'altro.
E così la Cina divenne un mito,
appunto "il mito dell'altro".
Io volli andare a vederlo coi miei occhi
e mi preparai studiando la lingua, la storia, la politica cinese e dandomi
un nome cinese, Deng Tiannuo, in modo da essere meno straniero quando mi
fosse finalmente toccato di vivere fra cinesi.
Mi ci vollero anni di attesa, perché
a quel tempo solo pochi fidati ed eletti venivano ammessi in "paradiso".
Dovetti aspettare che Mao morisse e che Deng aprisse le porte della Cina
per far rotta con la famiglia verso Pechino.
Ci arrivai nel gennaio 1980 e mi fu subito
chiaro che la realtà era meno affascinante dei sogni. Andai a cercare
quella speciale forma di socialismo che si diceva fosse stata costruita
in Cina, ma non trovai che le rovine di un esperimento fallito malamente.
Andai a cercare quella nuova cultura che doveva esser nata dalla rivoluzione
e non trovai che i mozziconi di quella vecchia, splendida cultura che nel
frattempo era stata sistematicamente distrutta.
Fra le varie porte che Deng aveva aperto
c'erano anche quelle dei campi di concentramento, dei campi di "rieducazione
attraverso il lavoro" in cui almeno venti milioni di intellettuali erano
finiti a causa del loro disaccordo col regime. Incominciai così
a incontrare quelle che erano state le vittime della follia di Mao e ben
presto capii che il sogno di Deng Tiannuo era stato l'incubo della Cina.
Leggere, a tavolino, nell'ovattata atmosfera
della Columbia University a New York, gli slogan di Mao, tipo: "Non tagliate
le teste della gente perché non sono come i cavoli che ricrescono",
era stato di grande ispirazione; diverso era scoprire, sul posto, che un
sacco di teste erano state tagliate, che un sacco di gente era stata torturata
e che, alla fine della cosiddetta "Rivoluzione Culturale", la Cina era
ridotta a un deserto affollato da gente impaurita e disorientata.
Al contrario di quella di Mao, la Cina
di Deng Xiaoping si lasciava vedere da vicino. La gente parlava quasi liberamente
e per un po' persino i muri raccontavano storie di ciò che era veramente
accaduto. Il "muro della democrazia" divenne una delle migliori fonti.
Fu un momento particolare, un'occasione
unica che non si poteva perdere e così viaggiai, viaggiai dovunque
mi fu possibile, dall'angolo più occidentale della Cina, nella provincia
del Xinjiang, alla punta più orientale, nella provincia dello Shandong,
dalla Manciuria del Nord all'isola tropicale di Hainan nel Sud. Non sempre
fu facile, perché l'atteggiamento dei funzionari comunisti cinesi
non era in fondo molto diverso da quello del mandarino dell'Ottocento che,
incontrando per la prima volta uno straniero che parlava cinese, si rivolse
al proprio seguito e chiese: "Chi è il traditore che gli ha insegnato
la nostra lingua? "
Tentai di vivere in una normale casa cinese,
in un quartiere cinese, ma mi fu assolutamente impossibile. Gli stranieri
possono abitare solo entro il recinto del cosiddetto "quartiere diplomatico",
le cui porte d'ingresso sono giorno e notte guardate da poliziotti armati
e dove ogni movimento di chi entra e di chi esce viene registrato.
Cercai di conoscere dei cinesi, di avere
rapporti con loro, ma anche questo si dimostrò complicato perché
ogni contatto "non ufficiale" fra uno straniero e un cittadino della Repubblica
Popolare Cinese è un contatto "illegale", anche se nessuno ricorda
la legge che sostiene questo.
Un anziano e colto signore, che avevo incontrato
un paio di volte poco dopo essere arrivato a Pechino e da cui volevo prendere
lezioni di calligrafia, mi fece sapere, attraverso un comune conoscente,
che non dovevo più farmi vivo con lui. Era stato chiamato dalla
polizia e gli era stato detto che poteva, sì, continuare a vedermi,
ma a condizione che ogni volta scrivesse un rapportino su quanto s'era
fatto e s'era detto. Per lui questa era un'umiliazione troppo grossa e
così non ci si vide più.
Nella Cina di oggi un giornalista straniero
che voglia incontrare un qualsiasi funzionario o semplicemente vedere uno
scrittore, un pittore, un professore universitario o un operaio di una
fabbrica deve anzitutto presentare una domanda scritta a un apposito ufficio.
Se il permesso viene accordato, l'incontro si svolge nella solita stanza
dei ricevimenti che ogni ufficio, fabbrica, scuola, ospedale o caserma
possiede, dove tutti stanno seduti su poltrone coi pizzi bianchi, alla
presenza del segretario del partito locale, con qualcuno che prende nota
delle domande e delle risposte. Questa procedura mi fece presto passare
la voglia di incontrare la gente passando per la via ufficiale e così
mi misi alla ricerca di una mia via per conoscere la Cina.
Cominciai a viaggiare in treno, ma non
negli speciali scompartimenti a "sedili morbidi" per stranieri, bensì
in quelli a "sedili duri" dove stanno i cinesi. Cominciai a girare in bicicletta
attraverso le province incontrando così gente comune, ascoltando
semplici contadini che raccontavano le storie dei loro villaggi e delle
loro famiglie. Essendo interessato ai vecchi giochi e passatempi di Pechino,
mi misi ad allevare grilli e piccioni e a frequentare i piccoli mercati
della capitale, dove incontravo regolarmente dei vecchi che m'insegnavano
quell'arte antica di fare "concerti" con gli animali.
Lentamente venni a conoscere una splendida,
umana Cina, una Cina su cui non avevo molto sognato, ma una Cina molto
più vera e particolare di quella che i funzionari del governo e la
stampa del regime presentavano al mondo esterno.
In questo modo feci anche le mie piccole
scoperte: in Tibet, per esempio, mentre il resto del gruppo con cui ero
costretto a viaggiare andava a visitare la solita fabbrica "Bandiera Rossa",
io, con una bicicletta presa in prestito, riuscii, da solo, a raggiungere
il posto dove avvenivano i "funerali del cielo", un'antichissima cerimonia
che le guide cinesi dicono non esista più e in cui i corpi dei morti
tibetani vengono tagliati a pezzi e dati in pasto agli avvoltoi.
Ma, così facendo, lentamente mi
allontanai dalla via che mi era stata assegnata e, come nella favola del
castello magico in cui l'ospite sa che può fare tutto tranne che
aprire una certa porta perché altrimenti libererebbe gli spiriti
malvagi, io non potei che aprire quella porta. E puntualmente gli spiriti
malvagi mi saltarono addosso.
Dopo più di quattro anni in Cina,
fui arrestato, interrogato e per un intero mese, come fossi un cinese,
fui rieducato. Eppure, proprio perché venni trattato come un cinese,
mi fu data la straordinaria possibilità di un ultimo, eccezionale
viaggio: questa volta nel cuore di tenebra della Cina. Improvvisamente
mi trovai come inghiottito nel ventre della balena e costretto a fare l'esperienza
di quel potere poliziesco di cui avevo solo sentito parlare e che, nonostante
gli enormi cambiamenti avvenuti di recente nel paese, resta il terrore
di un miliardo di cinesi.
Alla fine, accusato di un crimine che non
avevo commesso, fui espulso.
Lu Xun, il grande scrittore della Cina
prerivoluzionaria, l'aveva già detto alcuni decenni fa: "Quando
vuoi affogare un cane, accusalo d'avere la rabbia". La mia "rabbia" è
stata la pretesa di rompere il muro che mi separava dalla realtà
del paese. Il mio crimine è stato quello di aver scritto di una
Cina non addomesticata. Il mio crimine è stato l'aver cercato una
via d'uscita dal labirinto di proibizioni e tabù che avrebbero dovuto
tenermi lontano dalla gente.
Il mio crimine è stato l'aver provato
a essere un uomo fra uomini, l'aver cercato di scrollarmi di dosso quell'insopportabile
sensazione di essere sempre uno straniero fra cinesi.
HongKong, 1984.