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Lo Psichiatra e il "Brainwashing"
 
Di Mario Di Fiorino, Roberta Ermentini, Laura Parlavecchio, Francesco M. Saviotti.
 
Tratto da La persuasione socialmente accettata, il plagio e il lavaggio del cervello, Vol. I, a cura del Dott. Mario di Fiorino, Centro Studi di Psichiatria & Territorio, Forte dei Marmi (Lu). 1990-1991.
 
 
 
 
 
 
Rassegna storica
 
La metafora del "lavaggio del cervello" (brainwashing) è stata utilizzata a partire dagli anni '70 per interpretare la conversione ai "culti emergenti", ma nacque in un contesto del tutto diverso dall'attuale. Ebbe origine infatti da una cattiva traduzione del termine cinese hsi nao, che significa purificare la mente ["to cleanse the mind"]. Fu il giornalista statunitense Edward Hunter Jr., corrispondente da Hong Kong, in una serie di articoli comparsi nel "Miami Daily News" e nel "The Leader Magazine", nel Settembre 1950, a ricorrere alla metafora del brainwashing per indicare un sistema di persuasione che sarebbe stato impiegato nelle prigioni cinesi [1]. L'opinione pubblica occidentale rimase impressionata dalle "conversioni" ottenute dai comunisti cinesi tra i prigionieri (missionari cristiani, funzionari e ufficiali del regime nazionalista di Chang Kai Chek); l'anno successivo il bestseller "Brainwashing in red China" sancì il definitivo successo del termine [2]. In seguito la grande stampa continuò ad utilizzarlo per la comprensione degli atteggiamenti collaborazionistici di alcuni prigionieri statunitensi nella guerra di Corea.
 
Lifton [1961], dopo un attento studio dei metodi impiegati in Cina per influenzare ideologicamente le masse, ha riformulato in ambito scientifico il concetto legato al termine "lavaggio del cervello". Ha definito "riforma dei pensiero" ("thought reform") le variabili psicologiche che possono condurre al totalitarismo ideologico: 1) controllo sociale, 2) manipolazioni con toni mistici, 3) richieste di purezza politica e ideologica, 4) confessione personale, 5) accettazione dei dogmi di base del gruppo come sacri, 6) costrizione o connotazione del linguaggio in termini polarizzanti (n.d.T. del tipo o bianco o nero), 7) subordinazione della persona alla dottrina e 8) percezione della propria esistenza come dispensata dall'autorità [3].
 
Anche la vicenda dell'arresto e della "confessione" del cardinale Mindszenty, nei mesi che vanno dal Dicembre 1948 al Febbraio 1949, ripropose all'attenzione dell'opinione pubblica mondiale il problema dell'impiego di tecniche aggressive di persuasione [4]. Nelle sue "Memorie" [1975] il Cardinale Primate racconta di essere stato sottoposto a pressioni, ricatti, umiliazioni e torture fisiche, e sospetta anche di essere stato trattato con droghe. Ricorda di aver raggiunto una condizione di apatia: "stanco e nauseato di tutto... evidentemente ero già diventato un altro uomo". "Mi accorsi che l'opinione pubblica doveva essersi fatta l'idea che quella "confessione" era stata effettivamente resa da me, benché in uno stato di semicoscienza e naturalmente sotto l'influsso del lavaggio del cervello". Egli stesso quindi ipotizza di esser rimasto in uno "stato di diminuita capacità mentale", accettando esplicitamente la realtà del lavaggio del cervello.
 
Tra gli psichiatri che si sono occupati di queste problematiche, non stupisce trovare consulenti militari, quali Biderman e Hinkle, e collaboratori. Bidenuar (1957) osserva che pur essendo il "lavaggio del cervello" legato ai toni sensazionalistici della stampa, viene presentato come qualcosa di misterioso "che può essere capito solo da psichiatri, psicologi addentro alle segrete cose". Dopo una rassegna sui metodi di interrogatorio dei campi di concentramento cinesi, conclude asserendo la mancanza di novità rispetto ai consueti sistemi usati dalle polizie di tutti i paesi [5].
 
Hinkle et al. (1956) redassero per il Dipartimento della Difesa Statunitense un rapporto sulle tecniche di interrogatorio e di indottrinamento. Si basarono sull'osservazione clinica di persone, recentemente scarcerate da prigioni di paesi di Oltre Cortina, con un follow up di alcuni mesi. L'indagine longitudinale prevedeva test psicodiagnostici, un'inchiesta che interessava familiari e vecchi colleghi, per valutare I'adattamento sociale. Con questa dettagliata massa di dati, Hinkle et al. contribuirono a demitizzare, nella comunità scientifica, alcuni caratteri dello stereotipo giornalistico di lavaggio del cervello, quali l'infallibilità e l'efficacia. Il processo di persuasione avrebbe inizio ancora prima dell'ingresso nei "campi di rieducazione" e nelle prigioni, con l'atmosfera di sospetto che aleggia intorno ai possibili nemici del nuovo regime, per motivi sociali o religiosi. Angosciato e isolato da congiunti ed amici timorosi di venir compromessi, il sospetto vive ormai nella prospettiva dell'imminente carcerazione. Le circostanze dell'arresto, talora artatamente drammatizzate, ne aumentano il carattere intimidatorio. L'isolamento viene scandito da interrogatori, con torture fisiche, umiliazioni, maltrattamenti, deprivazione di sonno, alimentazione povera, abiti inadeguati. Gli inviti alla confessione ritmano gli interrogatori. I prigionieri sono tenuti a scrivere, più volte, un racconto della propria vita. Attraverso il confronto con le narrazioni di altri prigionieri i carcerieri possono scoprire delle contraddizioni. Si chiedono sempre nuovi dettagli su quanto "è stato nascosto". Man mano che cede alle pressioni, il prigioniero ottiene un allentamento del regime cui è sottoposto: ha termine l'isolamento con alloggio in una cella collettiva, dove peraltro le condizioni igieniche sono precarie, e "l'atmosfera è terribilmente promiscua: non esiste uno spazio personale".
 
Il prigioniero può socializzare con dei compagni. Inizia allora uno "psicodramma" in cui il prigioniero diviene carceriere per altri prigionieri, in un processo di indottrinamento pilotato.
Come monito per chi non mostra "pentimento" per la vita trascorsa, giunge notizia della esecuzione dei più recalcitranti, che si mantenevano ostili verso il nuovo regime. Hinkle et al. analizzano i piccoli compromessi che i prigionieri iniziano a fare con loro stessi, quanto basta per potersi identificare con dei valori adottabili dai carcerati. Le esibizioni di conversioni, pubblicizzate dai mass media, avvengono spesso in questo clima. La prospettiva è quella di essere ricompensati con l'invio in "campi di lavoro" od anche con l'espulsione [6].
 
Anche Schein (1956), psichiatra statunitense che ha studiato reduci di campi di prigionia nordcoreani, giunge a conclusioni analoghe: in Cina sono state solo combinate differenti tecniche di persuasione come interrogatori, discussioni di gruppo con un attento controllo delle informazioni trasmesse, richieste di autocritiche in un sistema con pene e ricompense [7].
 
Erving Goffman in "Asylums" ha studiato attentamente i lavori di Hinkle e Schein sui processi di indottrinamento e si serve delle descrizioni della vita nei campi di prigionia cinesi, per la sua teorizzazione dell'istituzione totale [8]. Così i prigionieri di guerra statunitensi che diventano "Pros" (proseliti) [7], vengono presi ad esempio per proporre uno dei modi di adattamento al sistema di un'istituzione totale, la "conversione". Scrive Goffman: "l'internato che si è "convertito" segue una linea più disciplinata, più moralistica e monocromatica, presentandosi come colui che mette a completa disposizione dello staff il suo entusiasmo istituzionale". Viene così raggiunta "una sorta di opportunistica combinazione di adattamenti secondari, conversione, colonizzazione, e senso di lealtà al gruppo, così che l'internato si trova a disporre - in particolari circostanze - del massimo di opportunità per poter uscire fisicamente e psicologicamente indenne" [8].
 
Brown (1977) ritiene che il successo della metafora del lavaggio del cervello possa spiegarsi solo con la paura latente delle masse di venir manipolate [9]. È ovvio che un ricercatore scientifico non farà mai una lettura metonimica del lavaggio del cervello. La concezione in qualche modo dovuta al libro di Sargant "Battle for the mind" [10], che un'idea possa essere inserita o tolta dal cervello e che sia possibile far posto ad una nuova visione della vita, come quando si cancella la lavagna è stata definita da Brown una "fiaba cinese".
 
Vi sono anche contributi, come lo studio di Ermentini e Gulotta (1971) in "Interrogatorio e confessione", che sottolineano la possibilità di manipolazione attraverso l'induzione di una "fatigue syndrome" [11]. Osservando soggetti sottoposti a trattamenti stressanti [12], militari che avevano sostenuto un combattimento [13], veniva rilevata una perdita della capacità di svolgere compiti familiari e di precisare luoghi, tempi e persone. Con il perdurare dello "stressor" potevano osservarsi alterazioni delle facoltà di giudizio, con fenomeni illusionali, allucinatori e deliranti. Le tecniche di interrogatorio utilizzate dalla polizia di molti paesi, sono basate essenzialmente sul martellamento inquisitorio e sulla deprivazione del sonno, che inducono il soggetto a fornire informazioni, ma anche talora "confessioni" in seguito ritrattate.
 
Hinkle (1961) sottolinea come un interrogatorio protratto possa forzare la volontà [6].
 
Sargant (1957), a sua volta, mettendo in evidenza come la lunga tensione aumenti la suggestionabilità, conclude che "se la giusta pressione è usata appropriatamente e per un tempo sufficiente, per i normali prigionieri vi sono poche possibilità di evitare il collasso. Solo persone eccezionali o mentalmente malate possono resistere per lunghi periodi" [10].
 
Per Goffman la convinzione corrente che vi sia un punto di rottura per ogni uomo, rinforzata da un'istruzione che tende a scongiurare il pericolo di ogni cedimento, porta i prigionieri a rinunciare ad ogni resistenza, una volta fatta qualche ammissione [8].
 
Moloney (1955) ha fornito un'interpretazione psicodinamica, che spiegherebbe come, in individui con un Super Io autoritario, l'esperienza traumatizzante dell'interrogatorio possa sconvolgere l'equilibrio, determinando un abbandono dell'Io all'autorità del Super Io, cioè del Super Io parassita, rappresentato da colui che interroga. La deferenza nei riguardi dell'autorità, favorita dalla situazione regressiva dell'uomo prigioniero, consentirebbe anche di comprendere la cooperazione spontanea dei prigionieri giapponesi, durante la seconda guerra mondiale [14].
 
Si ritiene peraltro che i metodi di costrizione fisica possano ottenere un controllo temporaneo dei comportamenti di una persona finché perdurano le condizioni, sia necessario far appello alla razionalità dell'uomo. Per Goffman, "se si eccettua i casi di istituzioni religiose, né i processi di spoliazione né quelli tendenti alla ristrutturazione, sembrano avere effetti duraturi, ciò a causa - in un certo limite - della possibilità di mettere in atto adattamenti secondari, dell'esistenza di contro-regole e della tendenza da parte degli internati ad escogitare ogni mezzo per sopravvivere" [8]. Come prova l'Autore cita "il riadattamento di prigionieri di guerra, rimpatriati, che erano stati sottoposti al brainwash" [6].
 
Nel 1974, con il caso Patricia Hearst, il "lavaggio del cervello" tornò nelle prime pagine dei giornali. Come si ricorderà la giovane, appartenente ad una famiglia proprietaria di una rete editoriale, venne rapita da un gruppo di terroristi dell'Esercito di Liberazione Simbionese. Dopo qualche tempo iniziò a comparire in messaggi filmati propagandistici dei terroristi ed anche a compiere azioni armate. Arrestata l'anno successivo, il processo ricevette un'attenzione incredibile dei mass media. La difesa fu impostata sulla tesi del lavaggio del cervello.
 
West e Lifton paragonarono il suo caso a quello dei prigionieri in Corea. Si registrò però anche una autorevole presa di posizione contraria. Walter Reich, del National Institute of Mental Health, denunciò il rischio per la credibilità della psichiatria, che dei periti ridessero vita con una operazione negromantica al dissepolto "lavaggio del cervello" [15]. La Hearst venne condannata.
 
 
 
La controversia lavaggio del cervello-deprogrammazione
 
Questo è il titolo del libro curato nel 1983 da David G. Bromley e James T. Richardson che ci sembra rendere molto bene i termini della questione, e fornire indicazioni sulla tensione emotiva che accompagna lo scontro [16]. L'applicazione del modello del lavaggio del cervello alle tecniche di proselitismo usate dai culti emergenti ha generato infatti un aspro scontro, che può essere compreso solo analizzando i vissuti emotivi che si sviluppano a motivo dei valori in gioco, da un lato la libertà di abbracciare una fede religiosa od uno stile di vita non conformista, che può apparire "strano" in dati contesti sociali, dall'altro la tutela che la famiglia e la società devono per quanti siano irretiti e plagiati. A questo punto sono opportune alcune definizioni. Un'autorevole definizione di deprogrammazione è quella di Ungereider e Wellish, secondo i quali consiste in "una serie di tecniche attraverso le quali il deprogrammatore allontana di forza la persona, ammesso che sia maggiorenne, dal culto o dal gruppo di appartenenza" [17]. Nel descrivere le tecniche utilizzate, sottolineano la grande varietà delle stesse, che possono giungere alla deprivazione di sonno e ad incontri molto prolungati ("maratona") in cui il soggetto viene sottoposto a sovraccarico sensoriale di vario tipo. Parlano di martellanti dichiarazioni negative riguardo al culto, spesso utilizzando urla, e ricorrendo a metodi di disorientamento spaziotemporale come l'isolamento dagli altri membri del gruppo, il trasferimento ripetuto della sede degli incontri e il cambiamento del ritmo sonno-veglia.
 
Definizioni invece di culto emergente, setta e "nuova religione" sono difficili sia in ambito teologico che sociologico. Sono state tuttavia descritte alcune caratteristiche proprie di tali gruppi, spesso indicati dagli anglosassoni con il termine "cults". Di solito sono gruppi: 1) con una leadership di tipo autoritario, 2) con organizzazione interna totalitaria ed omogeneizzante, 3) aggressivi nel loro proselitismo, 4) sistematici nei loro programmi di indottrinamento, 5) relativamente nuovi negli USA (e, aggiungiamo noi, in Europa) e 6) formati in prevalenza da persone provenienti dalla classe media [18].
 
A titolo di esempio ricordiamo la Chiesa per l'Unificazione del Mondo Cristiano del Rev. Moon, gli Hare Krishna, la Missione della Luce Divina, la Chiesa di Scientologia.
Nella presente rassegna utilizzeremo indifferentemente i termini nuovi culti e nuove sette.
 
I toni del dibattito tendono a salire, ai tecnici si chiede di schierarsi, quasi fosse possibile a priori stabilire, al di là del caso concreto, se esistono o meno dinamiche manipolatorie.
 
Sembra di rilevare peraltro che alcuni, proprio per il valore che è in gioco, ossia la libertà religiosa, pretendano non possa avere rilievo una valutazione psicopatologica in merito alle dinamiche plagiarie, compendiantesi nella riduzione di una persona nel potere di altri.
 
È opportuno offrire un saggio della complessità delle problematiche affrontate, puntualizzando il ruolo che lo psichiatra viene ad assumere nella controversia. Presentiamo qui alcune tesi contro la medicalizzazione dei problemi connessi con l'adesione ai nuovi culti.
 
Lubin, del Committe of Psychiatry and Religion per il Group of the Advancement of Psychiatry ha affermato come la società approvi le conversioni ad una religione che aiuti lo status quo, mentre desideri eliminare i neofiti di culti che minaccino le concezioni prevalenti "con l'esilio, l'imprigionamento o forme più leggere di repressione e considerandoli come malati mentali" [19].
 
In una prospettiva storica Bromley e Shupe [1981] osservano come alcuni temi dell'attuale polemica contro i nuovi culti riprendano i vecchi leit motives delle campagne nordamericane contro i Mormoni ma anche contro i Cattolici [20].
 
Gutman ha mostrato l'importanza del linguaggio impiegato dai mass media nella delegittimazione dei nuovi culti: "Quel che vogliamo distruggere, viene dapprima chiamato in modo peggiorativo: la religione si trasforma in setta, il Proselitismo in lavaggio di cervello, la persuasione in propaganda, le missioni in centri sovversivi, i ritiri, i monasteri ed i conventi in prigioni, i riti sacri in condotta strana, le osservanze religiose in comportamenti aberranti, devozione e meditazione in "trance" psicopatologica" [21]. La medicalizzazione dei gruppi religiosi "devianti" assume quindi come premessa che l'adesione al culto sia in sé patologica, ossia aberrante rispetto al normale funzionamento dell'organismo. Ne risulta che la persona "malata" è vittima dei processi patologici in essa agenti e quindi il suo comportamento deviante è sottratto al controllo della volontà e guidato da una sorta di compulsione (Conrad e Schneider, 1980) [22]. Questo legittima la sospensione delle normali aspettative e dei diritti del paziente riguardo alla sua persona (Taber et al., 1969) [23]. Gli adepti dei nuovi culti vengono così facilmente considerati delle vittime.
 
Shupe, Spilniann e Stigal (1977) hanno evidenziato il ragionamento implicito che viene fatto per delegittimare l'adesione al culto:
 
     
  1. Mio figlio, mia figlia, il mio congiunto ha abbracciato una strana religione.
  2.  
  3. Solo persone intrinsecamente "strane" potrebbero volontariamente essere attratte da tale religione.
  4.  
  5. Mio figlio, mia figlia o il mio congiunto non è ovviamente una persona intrinsecamente "strana".
  6.  
  7. Dunque egli o ella per aderire deve essere stato irretito o sottoposto a lavaggio del cervello [24].
  8.  
 
Thomas Szasz ha affermato a questo riguardo che "i genitori desiderano tanto credere nel lavaggio del cervello, perché altrimenti dovrebbero ammettere che il bambino al quale hanno dedicato 15 o 20 anni, li ha rifiutati insieme ai loro valori" [25].
 
D'altra parte il modello del lavaggio del cervello rappresenta un comodo alibi anche per il convertito che voglia lasciare il culto: "So che quel che ho fatto è sbagliato, ma non è colpa mia" [26].
 
Per applicare al proselitismo dei nuovi culti il modello del lavaggio del cervello si è cercato di rilevare analogie tra le due situazioni. Il ritiro in luoghi isolati priva i neofiti dalle influenze del mondo esterno e crea il contesto che favorisce l'attuazione di molte "conversioni". Il processo di conversione ai nuovi culti viene periodizzato in tre fasi da Clark (1981). Il primo stadio consiste nel cosiddetto "controllo della motivazione" e nel tipico processo di spoliazione. Gli individui, attirati nel gruppo, ricevono un'intensa attenzione personale, sono sottoposti a pressioni sociali, bombardati da attività, deprivati del sonno e dell'alimentazione e indotti sistematicamente in stati alterati di coscienza. Questa prima fase è condotta in modo da "ammorbidire" e rendere il neofita più ricettivo ad idee e ideologie, spesso strane, delle sette.
 
La seconda fase prevede il controllo della reazione, cioè a dire il training e l'identificazione: il neofita è sottoposto ad una "maratona di conferenze e di intense attività devozionali o confessionali, studiate per mantenere e consolidare la ricettività del convertito". Questi è costantemente sollecitato ad adottare le idee, le pratiche e i comportamenti approvati dalla setta. La terza tappa è quella del controllo normativo e del rinascere di un nuovo Sé, "una seconda personalità: la personalità della setta - inizia a poco a poco ad acquistare una certa autonomia, nella misura in cui combatte con la vecchia personalità per acquistare una posizione preminente nella coscienza" [27].
 
L'individuo ha così acquisito un nuovo Sé, sostenuto da una nuova visione del mondo, uno speciale linguaggio, ruolo, attività, norme e relazioni sociali. La descrizione di Clark è stata definita criticamente da Richardson e Kilbourne [26] come un "quasi-lavaggio del cervello".
Shapiro [1977], a sua volta, riferendosi all'indottrinamento del culto lo definisce come "menticidio... una pericolosa forma di coercizione mentale in cui la mente libera viene attaccata" [27].
 
Nel dibattito sulla legittimità dell'affiliazione ai nuovi culti, un aspetto retorico interessante è il racconto delle atrocità, che verrebbero subite dagli adepti, soprattutto da quelli nuovi. I sociologi Bromley, Shupe e Ventimiglia (1983) mostrano la funzione svolta dagli apostati, con i loro "atrocity tales" (racconti di atrocità) [29].
 
L'atrocità "può essere definita un avvenimento visto come una flagrante violazione di un valore culturale. Un racconto di atrocità presenta quell'avvenimento (reale o immaginario) in modo tale da suscitare disgusto morale, specificando e dettagliando le violazioni del valore, autorizza implicitamente o esplicitamente sanzioni punitive, e mobilita tentativi di controllo di quanti hanno perpetrato le atrocità".
 
Sono state sottolineate anche radicali differenze tra il lavaggio del cervello operato nei campi di concentramento coreani (POW camps) e l'affiliazione ai nuovi culti [30]. Mancherebbe in questi ultimi la costrizione fisica [31, 32, 33]; non vi sono inoltre i processi di decondizionamento, definiti "stripping", che precedono l'indottrinamento vero e proprio [34]; e infine nelle sette vi è un minor grado di isolamento [26] e di controllo delle informazioni [18, 33]. Vi è anche chi dubita che comportamenti o credo religiosi possano essere adeguatamente spiegati come meri prodotti di condizionamento [35].
 
Un ultimo gruppo di argomentazioni contro l'applicazione della metafora del lavaggio del cervello alle nuove sette è di tipo filosofico-libertario: "La libertà di credere comprende la libertà di definire le proprie esperienze nell'ambito di un gruppo ideologico", in altri termini considerarsi "risvegliati" ad una nuova esistenza piuttosto di ritenere di aver subito il lavaggio del cervello [36].
 
In assenza di coercizione fisica tangibile, con quali criteri si dimostrerà l'esistenza di un cervello lavato o di un volontà prigioniera? [18] Solomon osserva che nelle tecniche di persuasione impiegate sia per i neofiti che per gli adepti sottoposti a deprogrammazione è possibile in realtà rinvenire elementi quali l'isolamento dall'abituale ambito di vita e la monopolizzazione delle informazioni. "Per verificare se la metafora del lavaggio del cervello può essere equiparata ai processi di discussione, bisogna utilizzare come criterio non tanto la presenza o l'assenza degli elementi citati, quanto l'intensità della loro applicazione".
 
E ancora la Solomon mette in guardia dal considerare in modo più rilevante invece che la forma o la sostanza delle tecniche di persuasione, i motivi di coloro che le attuano. Sottolinea però la difficoltà di un giudizio "tecnico" che si limiti ad un'analisi dei metodi di indottrinamento, e non consideri la dottrina stessa. Di fatto ci si arrogherebbe il giudizio circa la legittimità delle tecniche di persuasione sulla base di una impostazione dottrinale del tecnico [37].
 
Del resto i temi religiosi sono scarsamente trattati nella letteratura e nella stessa concettualizzazione psichiatrica dei comportamenti umani [38]. Larson et al. notano come la religione sia stata molto più trattata dagli psicologi e dai sociologi piuttosto che dagli psichiatri, con il risultato che questi ultimi hanno nell'approccio ai fenomeni psicopatologici scarse capacità di discernimento rispetto a fenomeni di matrice più strettamente religiosa. Nella forma più rozza, sostengono Larson et al., la psichiatria considera la religione come nevrotica, immatura o come "sfogo" per il soggetto disturbato mentalmente. Ciò sarebbe in contraddizione, secondo gli Autori citati, con le ricerche psicosociali che dimostrano come i malati mentali siano meno religiosi... mentre i soggetti psicologicamente sani lo sarebbero di più [38].
 
La discussione sul plagio, in rapporto alle nuove sette, ha avuto particolare risonanza in Italia, a proposito delle vicende giudiziarie di Scientology.
 
Nella perizia riguardante la comunità Narconon gestita dalla Chiesa di Scientology, i periti di ufficio [39] sostenendo che non può esservi circonvenzione senza suggestione (visto che il reato di plagio è stato cancellato dal Codice di Procedura Civile nel 1981) descrivono un ''clima plagiante''. Il modo in cui avviene la tessitura del proselitismo, il modo sempre rassicurante di avvicinare il futuro adepto, la proposta di un misterioso mutamento della "qualità della vita", la fase di approccio preliminare sono gravidi di un'implicita induzione del concetto di "iter non abbandonabile" e il tentativo di plagio quindi si realizzerebbe con un duplice meccanismo: con il suscitare sensi di colpa per chi abbandona o tradisce l'organizzazione, ma anche con la progressiva spinta del soggetto verso vissuti di terrore, angoscia, vendetta che inevitabilmente verrà ad incombere su di lui e i suoi congiunti. Un altro elemento di persuasione, induzione e suggestione è rappresentato dalla prospettiva di
"far carriera" nell'ambito della setta offerta al neofita [39].
 
La perizia di parte, redatta dal Prof. A. Ermentini, si regge su due cardini: la dimostrazione che Scientology è una religione ispirata alla tradizione culturale orientale, in particolare induista, e la mancata dimostrazione, nell'accusa, di uno stato di deficienza psichica o di infermità mentale della parte lesa, condizioni che motivano il reato di circonvenzione d'incapace 643 C.p. Mentre la discussione sulla deficienza psichica si sviluppa intorno a problemi di metodologia di indagine, l'argomento religioso si ispira al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d'America, fondato sulla libertà religiosa. In questo modo verrebbe sottratta Scientology anche ai rischi di imputazione per truffa o per esercizio abusivo della professione medica [40].
 
La complessa rete di argomentazioni esposte sopra, contro la medicalizzazione dell'affiliazione alle nuove sette, rende tuttavia evidente la svalutazione del sapere psichiatrico, laddove si afferma che è difficile verificare l'applicazione di criteri per valutare la coercizione della volontà.
 
Discuteremo ora dei problemi più strettamente psicopatologici legati all'affiliazione alle nuove sette e alla deprogrammazione, evidenziando come proprio con l'ausilio delle scienze psichiatriche e psicologiche si possano interpretare questi fenomeni emergenti.
 
 
 
I culti emergenti in prospettiva psicopatologica
 
Numerosi e differenti tra loro sono i gruppi religiosi che andrebbero presi in considerazione. Tuttavia, in base agli studi fatti e alle caratteristiche comuni dei gruppi, presentiamo una rassegna generale che puntualizzi: 1) l'affiliazione al gruppo, 2) la personalità dei soggetti, 3) le modificazioni psicologiche degli adepti al culto.
 
 
1) L'afflliazione al gruppo
 
I gruppi dei nuovi culti sono stati inquadrati da Galanter [41] nel modello dei "grandi gruppi terapeutici". Il grande gruppo viene definito come "la solida associazione di un gran numero di persone che si riuniscono spesso in gruppi più piccoli e condividono in modo zelante una certa filosofia di vita con specifici rituali. I ruoli sociali e le norme di comportamento dei membri del gruppo vengono ridefinite in rapporto ai fini e alle funzioni del gruppo" [42]. Studi naturalistici e anche sperimentali sui processi di affiliazione hanno messo in luce che il rapporto tra le relazioni con i membri del gruppo e le relazioni con persone di altri ambienti precedenti di appartenenza è al centro della durata di permanenza nel culto. Quanto più deboli [42] e carichi di ostilità [17] sono i rapporti familiari, tanto più forti risultano i legami entro il nuovo gruppo e quindi destinati a durare nel tempo.
 
Un'altra variabile importante risulta essere la presenza nel gruppo di "veterani soddisfatti" della loro esperienza insieme ai nuovi adepti [42]. I meccanismi di "modeling" comportamentale e di identificazione sono alla base dei risultati derivanti da tale mescolanza. Questi meccanismi sono tuttavia alla base di molti gruppi, religiosi e non, e costituiscono un metodo preciso per gruppi di autosupporto ["self-help groups"] come quello degli "Alcolisti Anonimi".
 
L'affiliazione ai nuovi culti ha trovato anche spiegazioni di tipo psicodinamico. "Stabilendo rigidi controlli e sistemi di credenze, i culti allontanano dalle responsabilità individuali, impedendo così la crescita futura e la formazione dell'identità" [43]. L'abbandono della propria identità spesso accompagna l'attaccamento al gruppo nei settings previsti dai culti [44] giungendo al conflitto tra nuova e vecchia personalità già descritto da Clark [27], ed illustrato nella prima parte della rassegna. L'insistenza sulla formazione dell'identità deriva dal fatto che la grande maggioranza dei soggetti aderenti ai nuovi culti è di età compresa tra l'adolescenza e l'età adulta. Qui si acuiscono i conflitti personali e familiari volti a raggiungere, secondo il modello di Erikson, una nuova identità che sostituisce quella infantile, permettendo l'acquisizione di una più stabile definizione di sé e dei propri ruoli sociali [45].
 
Spero [46] considera l'affiliazione ad un culto come il risultato di diversi fattori: una disposizione verso soluzioni regressive dei conflitti, le travolgenti difficoltà incontrate nella vita moderna e le tecniche di indottrinamento operate nei culti e destinate a manipolare tali variabili.
 
Un fattore cruciale nell'arruolamento del nuovo adepto è la vulnerabilità che deriva da una scadente relazione padre-figlio [47]. Per Schwarz e Kaslow coloro che godono di una soddisfacente relazione con un padre valido non necessiterebbero di far parte di un'organizzazione guidata da una figura paterna onnisciente ed onnipotente [47]. Ricordiamo infatti che una caratteristica dei nuovi culti è quella di avere un'organizzazione interna altamente totalitaria e gerarchica con un leader molto autoritario [18]. Quella di Schwarz e Kaslow è una suggestiva interpretazione psicodinamica, che tuttavia non sembra essere particolarmente specifica dei nuovi culti e soprattutto non discrimina all'interno di essi.
 
 
2) La personalità dei soggetti aderenti ai nuovi culti
 
In questo campo le differenze metodologiche sono così rilevanti da inficiare conclusioni definitive. Sembra tuttavia di poter descrivere con chiarezza alcuni elementi. Una prima distinzione andrebbe operata tra coloro che, pur afflitti da problemi di maturazione, utilizzano il gruppo per affrontare normali conflitti adolescenziali e coloro che sono più seriamente disturbati ed utilizzano il gruppo in modo patologico [43]. I primi otterrebbero anche un notevole beneficio da una corretta psicoterapia volta ad una maturazione del loro sviluppo adolescenziale. Il secondo gruppo sarebbe invece più chiaramente patologico e resistente al trattamento psicoterapico; secondo Etemad [48] costituirebbe i 2/3 del totale comprendendo "giovani depressi, inadeguati e borderline antisociali".
 
Un'altra, più complessa, distinzione è operata da Ungerleider e Wellish sulla base di una ricca metodologia psicometrica [17]. Distinsero soggetti rimasti nel gruppo (includendo coloro che sono rimasti per paura della deprogrammazione e coloro che sono rientrati dopo la deprogrammazione) da soggetti usciti, sia volontariamente che deprogrammati. Nel primo gruppo, al M.M.P.l. si evidenziò una difficoltà nel controllo degli impulsi in diverse aree con relative deficienze superegoiche, così che i culti risultavano servire come sostituti esteriorizzati del Super Io. In particolare le difficoltà emergevano nel controllo dell'ostilità.
 
Accanto allo scarso "insight" emergevano difese come l'eccessivo conformismo, la rimozione e la negazione. Nel secondo gruppo, invece, dominavano l'alienazione sociale ed emotiva e la scarsa forza dell'Io. Tutti i gruppi non evidenziarono deficit intellettivi al W.A.I.S., ma rientravano nel modello definito da Lifton "grandi affamati di ideologia" [49]. I culti risultavano così un nutrimento per la loro fame "ideologica" così come un sollievo per la loro ambivalenza e conflittualità interiore [17]. Un altro dato che emerge per tutti, ad esclusione di coloro che si allontanarono volontariamente, è il forte bisogno di affiliazione, di istituire forti legami emotivi, problema già presente prima di aderire al culto. Coloro che rimangono nel gruppo mostrano addirittura di sentirsi dominanti e protagonisti alla scala ICL (Interpersonal Check List). Ciò è in contrasto con la reale struttura gerarchica interna al gruppo e può essere spiegato secondo il meccanismo di dissonanza cognitiva [17, 46].
 
Anche se con metodi standard non è stata rilevata la presenza significativa di malattia mentale negli aderenti ai culti in un campione di 50 soggetti [17], molte persone, prima di aderire al culto, erano state in trattamento psicologico e talora ospedalizzate [50, 51, 52]; circa un quarto, poi, di un altro campione aveva avuto gravi problemi di tossicodipendenza [50].
 
La descrizione più completa, sul piano della personalità, degli adepti prima della "conversione" al culto è stata data da Spero [46] dopo un'indagine su 65 soggetti utilizzando riferimenti psicodinamici e un'ampia batteria di tests: W.A.I.S., Bender-Gestalt Test, Draw-A-Person Test, Sentence Completion Test, T.A.T., proiettivo Rorscharch. Emergono due fondamentali modelli personologici: uno guidato da rigidi processi cognitivi con una chiara inclinazione per la stereotipia, e un altro caratterizzato da negazioni maniacali di dinamiche depressive, con scarsa differenziazione psicologica, risposte emotivamente labili e poco controllate, e infine esprimente relazioni oggettuali irrealistiche ed idealizzate. Anche sul profilo rigido descritto per primo si possono inserire reazioni maniacali nella fase di uscita dal gruppo quando la figura del leader viene spogliata della precedente idealizzazione con la conseguente dolorosa perdita oggettuale. Entrambi i profili sono caratterizzati da: a) relazioni interpersonali molto dipendenti ed eterodirette, b) proiezione di elementi negativi e odiati di sé e degli altri precedentemente introiettati, c) precoci esperienze orali intensamente ambivalenti o insoddisfacenti, d) aspetti narcisistici, e) un indebolimento di giudizio critico e delle facoltà di ragionamento, f) aspetti del senso di realtà moderatamente o gravemente indifferenziati (nella distinzione, per esempio, tra interno ed esterno, tra passato e presente, nel mantenere individuati i confini del sé, nel rapporto tra sogno e memoria etc., g) una tendenza, in alcuni, alla scissione dell'imago e dell'Io (soprattutto evidenziati al T.A.T.), h) in generale, dunque, l'utilizzazione di meccanismi di difesa, senso di realtà e relazioni oggettuali fortemente preedipici.
 
Molte caratteristiche evidenziate dagli adepti ai nuovi culti, come la passività, la confusione dell'identità, e gli scarsi confini del sé sono correlate con uno stile cognitivo fortemente dipendente dal campo e psicologicamente indifferenziato [53, 54]. Questo spiega l'inclinazione a legarsi a compagnie di persone che a loro volta siano regredite a livelli di scarsa differenziazione tra sé e non sé [46]. Lo stile cognitivo di dipendenza dal campo sembra essere la variabile più direttamente correlata con l'affiliazione ad un nuovo culto [46].
 
Precisiamo che il campione studiato da Spero era un gruppo di ex-adepti di vari culti che accettarono di sottoporsi a psicoterapia per il reinserimento negli abituali ambienti di vita. Inoltre le caratteristiche personologiche dei soggetti studiati invitano a riconoscere lo stile di dipendenza dal campo come preesistente, in gran parte, all'adesione al culto. Simmonds, a sua volta, ha parlato di "addictive personality" (personalità tossicodipendente) [55] che utilizzerebbe la setta come una droga con i medesimi effetti di "ristoro". Infine, rimane da studiare l'affiliazione e la personalità dei soggetti aderenti a gruppi simili a quelli dei culti per struttura gerarchica, leadership autoritaria e mescolanza di "nuovi e vecchi" adepti: tali gruppi potrebbero costituire vere e proprie popolazioni di controllo.
 
 
3) Le modificazioni psicologiche degli adepti
 
Anche qui i pareri si dividono. Galanter ha parlato di "relief effect", cioè di sollievo, poiché la proposta del gruppo avviene in un momento favorevole per il soggetto, pronto per il cambiamento [41]. Vengono offerti dalla setta regole, autorità e nuovi ruoli che garantiscono sicurezza e senso di dominanza [17]. Nonostante siano verificabili contestualmente anche elevate quote di ansia e compulsioni mediante tests incrociati, nella dichiarazione dei soggetti prevale la soddisfazione [46] e questo, come si è detto, può essere spiegato come una dissonanza cognitiva comune ad altri gruppi terapeutici [41, 56]. L'effetto di sollievo è tanto più spiccato quanto più anziana è l'appartenenza al gruppo [42]. A questo proposito, ricordiamo che Lifton stesso ha parlato di "personal change" per descrivere la soddisfazione che trae il soggetto dalla "conversione" che capiterebbe nel momento per lui più giusto [49]. Il "personal change" viene distinto dal "thought reform" (riforma del pensiero), termine che egli utilizzò per descrivere più scientificamente il lavaggio del cervello [49].
 
L'effetto di "sollievo" sembra comunque convalidato da numerosi studi sulle sette più affermate, soprattutto sui Moonies, molto studiati negli U.S.A. [50, 52, 57]. Griffith et al. descrivono una notevole diminuzione del disagio nevrotico alla scala del S.C.L. - 90 in soggetti che hanno sperimentato la meditazione contemplativa [Mouning] dei Battisti Spirituali [58]. Vengono descritti altri benefici come l'astensione da droghe [50, 59, 60] con controllo anche sul consumo compulsivo di caffè [50], prevenzione del suicidio [61] e recupero di ruoli sociali contro l'anomia e la confusione morale [62].
 
Le metodologie sono comunque molto diverse e gli studi anamnestici sono inficiati dalla brevità del periodo analizzato, per cui risultano in gran parte studi trasversali ed il campione utilizzato può modificare radicalmente i risultati. Per esempio, come non tenere conto dell'ostilità che da taluni è rivolta alla famiglia prima della conversione, da altri dopo la conversione, e da altri ancora è rivolta contro i deprogrammatori [17, 18]. In ogni caso i punteggi sulle scale di "benessere" [well being] spesso migliorano dopo I'adesione ai culti; rimangono tuttavia inferiori, nella media, a gruppi di controllo appaiati per sesso, età e condizione sociale [42, 50].
 
A lato degli studi esposti che mostrano dati di miglioramento psicologico e sociale o, al limite, di soddisfazione da dipendenza, esponiamo descrizioni "drammatiche". Etemad, esperto in deprogrammazione, riferisce come "giovani prima brillanti e creativi siano resi incapaci di ironia e di metafore e si Iimitino ad un vocabolario attentamente ristretto, pieno di clicheés e di idee stereotipate... Molti hanno difficoltà nell'astrazione" [48]. La stereotipia del linguaggio con difficoltà a condurre una normale conversazione, e il modo di pensare dicotomico (in "bianco e nero") fanno parte delle descrizioni anche di altri autori [46]. Spero propone altri elementi come i processi di pensiero rigido, fobico anche paranoideo, espressioni emotive spontanee alternate a stati di preoccupazione autistica, una immagine di sé svalutata, oscillazioni di umore, depersonalizzazione, distanziamento da precedenti identificazioni ed obbedienza cieca al leader [46].
 
Un atteggiamento di entusiasmo maniacale per le credenze del culto è molto frequente e può accompagnarsi ai fenomeni simili alla depersonalizzazione che gli adepti definiscono "to feel blissed out"; questa fase, tuttavia, normalmente sarebbe solo passeggera [18] e viene definita di "entusiasmo" [60] o di "luna di miele" [62].
 
Un inquadramento nosografico è stato tentato da alcuni periti psichiatri negli U.S.A. [63] che hanno parlato di "disturbo dissociativo atipico" secondo il D.S.M.-III. Essi utilizzano descrizioni di Moonies, ove questi vengono paragonati a "zombie": tali soggetti solevano infatti parlare del loro "vuoto interiore" ed assumevano posture rigide e stereotipate. Per Lunde e Sigal [64] non è possibile, in base a queste descrizioni, stabilire quanto pesa la personalità precedente alla conversione, e in ogni caso è opportuno che i periti siano molto prudenti nell'utilizzare tale etichetta diagnostica. Stephen Ash sottolinea a sua volta come i cardini della psicopatologia indotta nei culti siano la dissociazione e la sfumatura dei confini dell'Io distinguendo, peraltro, queste esperienze da quelle tipicamente mistiche e da altri disturbi di personalità come la personalità multipla, borderline e narcisistica [65].
 
È da notare come molte descrizioni psicopatologiche derivino dalle osservazioni fatte all'uscita degli adepti dal culto, o in fase di psicoterapia successiva. Vengono anche osservate in questa fase reazioni traumatiche d'ansia e fenomeni tipicamente borderline.
 
Ricorrono infatti i fenomeni di "slippage" e "floating" già descritti da Clark [27] e da Goldberg e Goldberg [66] duranti primi mesi di trattamento dopo l'uscita dalla setta. Per "slippage" si intende deficit cognitivo temporaneo con incapacità di trattenere un pensiero, di rispondere a domande e con perdita della distinzione tra il concreto e la metafora. Il "floating" è invece un disturbo delle funzioni egoiche del senso di realtà con esperienza soggettiva di depersonalizzazione [46].
 
 
 
La deprogrammazione
 
Un'autorevole definizione di deprogrammazione è stata data da Ungerleid e Wellish ed è esposta nella prima parte di questo studio [17].
 
Si espone ora un panorama di interpretazioni assegnate a tale termine.
 
Eileen Barker analizza gli effetti prodotti dalla deprogrammazione: evidenzia come in alcuni casi essa paradossalmente rinforzi i legami con i gruppi incrementando il fanatismo tra essi [34]. Secondo le testimonianze dei seguaci dei culti i deprogrammatori, dopo il "rapimento", propongono un rovesciamento completo dei valori [67]: ciò che gli adepti credono vero viene definito falso e sbagliato. Etemad, noto come uno degli psichiatri che maggiormente si sono dedicati alla deprogrammazione, sottolinea l'importanza degli incontri-maratona in cui viene "sezionata" la figura del leader del gruppo e si svolge una puntuale rivisitazione critica dell'esperienza della conversione al culto. Il risultato finale sul piano terapeutico sarebbe una sorta di "abreazione" in grado di riportare il soggetto alla "normalità" [48]. Eileen Barker, invece, rileva che - ciò che viene avvertito come intollerabile è il sentimento di impotenza, durante la forzata separazione dal gruppo [34]. I sociologi Bromley e Shupe nella loro opera più famosa "Strange Gods" riportano numerosi racconti di deprogrammatori e notano la retorica emotiva da essi utilizzata [20]. La tecnica sarebbe infatti quella di enfatizzare esperienze di conversione ai culti o selezionarne alcune particolarmente drammatiche per convincere il "deprogrammando" delle aberrazioni insite nel culto. Tuttavia, a nostro parere Bromley e Shupe tendono ad utilizzare spesso la medesima tecnica per stigmatizzare l'opera dei deprogrammatori estendendo la critica anche a chi si occupa degli adepti ai culti o degli ex-adepti con modalità certamente diverse dalla deprogrammazione. Per converso Ted Patrick, noto deprogrammatore di estrazione non psichiatrica, scrive nel suo libro "Let our children go!": "Tutto quello che voglio e faccio è per far tornar loro la capacità di pensare da sé, di esercitare la propria libera volontà che i culti hanno messo in frigorifero!" [67]. Altrove dichiara: "...è come tornare alla luce in una stanza buia o afferrare una persona indietro dai morti…" [67].
 
I metodi che vengono definiti deprogrammazione sono, lo ripetiamo, molto eterogenei e, come si è visto sono stati, al pari della conversione al culto, oggetto di molta retorica. Tali sistemi, comunque, potrebbero essere definiti "coercive deprogramming" [deprogrammazione forzata]. Robbins e Anthony hanno messo in guardia contro la "nuova inquisizione", formulata in termini di igiene mentale e di liberazione dal lavaggio del cervello [18]. J.F. Mayer nota come paradossalmente somigli più ad un lavaggio del cervello la deprogrammazione che non le tecniche di conversione adottate dai nuovi culti [68].
 
Escludendo i metodi più coercitivi, Rabbi Maurice Davis, fondatore di uno dei primi gruppi anti-sette, il Citizens Engaged in Reuniting Famìlies, propone di chiamare "reevaluation" [rivalutazione], pratiche come il dibattere ed il conversare che alcuni definiscono impropriamente deprogrammazione, per il fatto che tendono ugualmente ad allontanare il soggetto dal culto [69]. Alcuni psicoterapeuti americani hanno utilizzato metodi volti al reinserimento degli adepti negli ambienti di provenienza rielaborando l'esperienza del culto: a nostro parere questa non è altro che psicoterapia individuale di tipo psicodinamico e che si avvale dell'intervento di supporto della famiglia [43,46]. Il trattamento non è coercitivo e mira al raggiungimento di relazioni oggettuali più mature. Dettagli sul metodo vengono egregiamente descritti nei lavori di Spero [46] e di Schwartz [43]. Il primo autore ha descritto anche una "sindrome di uscita dalla setta" [postcommitment syndrome]: "Gli ex-adepti sono inizialmente depressi ed irritabili... cauti nell'intraprendere nuove relazioni interpersonali, ed in seguito esprimono la loro felicità per essere tornati alla normalità. Da ultimo si presentano due possibilità. L'ex adepto si dedica in modo massiccio all'attività anti-culto (diventa "l'apostata") oppure entra in uno stato di anomia sociale e di insicurezza risultando più facile un ritorno alla setta di provenienza [46].
 
Considerato l'acceso dibattito che investe le pratiche di deprogrammazione riteniamo che ogni eventuale disciplina giuridica del problema debba tenere conto innanzitutto della distinzione tra i vari tipi di metodi utilizzati nell'allontanamento dei soggetti dal culto. Tale distinzione rimanda, a sua volta, alla valutazione della personalità del soggetto e ai trattamenti cui è stato sottoposto durante la conversione al culto.
 
 
 
Conclusione
 
Nella rassegna presentata abbiamo cercato di illustrare in modo critico il ruolo della psichiatria nel dibattito sulle dinamiche di affiliazione ai nuovi culti.
 
La dizione "lavaggio del cervello" è indubbiamente semplicistica e in realtà viene riformulata nella letteratura scientifica in vario modo: riforma del pensiero [49]. coercizione mentale [18].
 
Senza la pretesa di medicalizzare questo campo, pensiamo che rientri nelle competenze dello psicopatologo la valutazione di dinamiche plagiarie che possono svilupparsi, e che tale valutazione vada condotta sulla situazione concreta. Del resto rifiutare a priori l'intervento tecnico dello psichiatra, sia pure con l'argomentazione che è in gioco la libertà religiosa, significa rinunciare ad accertare se alcune persone siano state sottoposte a rilevanti manipolazioni del loro stato psichico. Riteniamo che vadano valutati in primo piano i metodi utilizzati nella "conversione" al culto e nella deprogrammazione: in ogni caso occorre la consapevolezza che su tale valutazione pesa in modo particolare la visione di vita dello psichiatra, il quale nella sua formazione tecnica è spesso poco preparato ad analizzare il posto che occupa la religione nella vita dei propri pazienti [38].
 
Gli studi sull'affiliazione alle sette dal punto di vista psicopatologico sono una fonte suggestiva di dati per interpretare sempre meglio la partecipazione dei pazienti ai gruppi di psicoterapia e di auto-terapia (v. Alcolisti Anonimi) [42].
 
Infine riteniamo che il sapere psichiatrico possa contribuire ad interpretare in modo fecondo i fenomeni di conversione religiosa solo conservando la necessaria prudenza laddove sono in gioco importanti valori di libertà di coscienza.
 
 
 
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[40] perizia di parte del prof. Ermentini.
 
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