Rassegna storica
La metafora del "lavaggio del cervello" (brainwashing) è stata
utilizzata a partire dagli anni '70 per interpretare la conversione ai "culti emergenti",
ma nacque in un contesto del tutto diverso dall'attuale. Ebbe origine infatti da una
cattiva traduzione del termine cinese hsi nao, che significa purificare la mente ["to
cleanse the mind"]. Fu il giornalista statunitense Edward Hunter Jr., corrispondente
da Hong Kong, in una serie di articoli comparsi nel "Miami Daily News" e nel "The
Leader Magazine", nel Settembre 1950, a ricorrere alla
metafora del brainwashing
per indicare un sistema di persuasione che sarebbe stato impiegato nelle prigioni
cinesi [1]. L'opinione pubblica occidentale rimase impressionata dalle "conversioni"
ottenute dai comunisti cinesi tra i prigionieri (missionari cristiani, funzionari
e ufficiali del regime nazionalista di Chang Kai Chek); l'anno successivo il bestseller
"Brainwashing in red China" sancì il definitivo successo del termine [2]. In
seguito la grande stampa continuò ad utilizzarlo per la comprensione degli
atteggiamenti collaborazionistici di alcuni prigionieri statunitensi nella guerra
di Corea.
Lifton [1961], dopo un attento studio dei metodi impiegati in Cina per influenzare
ideologicamente le masse, ha riformulato in ambito scientifico il concetto legato
al termine "lavaggio del cervello". Ha definito "riforma dei pensiero" ("thought reform")
le variabili psicologiche che possono condurre al totalitarismo ideologico: 1) controllo
sociale, 2) manipolazioni con toni mistici, 3) richieste di purezza politica e ideologica,
4) confessione personale, 5) accettazione dei dogmi di base del gruppo come sacri,
6) costrizione o connotazione del linguaggio in termini polarizzanti (n.d.T. del tipo
o bianco o nero), 7) subordinazione della persona alla dottrina e 8) percezione della
propria esistenza come dispensata dall'autorità [3].
Anche la vicenda dell'arresto e della "confessione" del cardinale Mindszenty, nei
mesi che vanno dal Dicembre 1948 al Febbraio 1949, ripropose all'attenzione dell'opinione
pubblica mondiale il problema dell'impiego di tecniche aggressive di persuasione [4].
Nelle sue "Memorie" [1975] il Cardinale Primate racconta di essere stato sottoposto
a pressioni, ricatti, umiliazioni e torture fisiche, e sospetta anche di essere stato
trattato con droghe. Ricorda di aver raggiunto una condizione di apatia: "stanco e
nauseato di tutto... evidentemente ero già diventato un altro uomo". "Mi accorsi
che l'opinione pubblica doveva essersi fatta l'idea che quella "confessione" era stata
effettivamente resa da me, benché in uno stato di semicoscienza e naturalmente
sotto l'influsso del lavaggio del cervello". Egli stesso quindi ipotizza di esser
rimasto in uno "stato di diminuita capacità mentale", accettando esplicitamente
la realtà del lavaggio del cervello.
Tra gli psichiatri che si sono occupati di queste problematiche, non stupisce trovare
consulenti militari, quali Biderman e Hinkle, e collaboratori. Bidenuar (1957) osserva
che pur essendo il "lavaggio del cervello" legato ai toni sensazionalistici della
stampa, viene presentato come qualcosa di misterioso "che può essere capito
solo da psichiatri, psicologi addentro alle segrete cose". Dopo una rassegna sui metodi
di interrogatorio dei campi di concentramento cinesi, conclude asserendo la mancanza
di novità rispetto ai consueti sistemi usati dalle polizie di tutti i paesi
[5].
Hinkle et al. (1956) redassero per il Dipartimento della Difesa Statunitense un rapporto
sulle tecniche di interrogatorio e di indottrinamento. Si basarono sull'osservazione
clinica di persone, recentemente scarcerate da prigioni di paesi di Oltre Cortina,
con un follow up di alcuni mesi. L'indagine longitudinale prevedeva test psicodiagnostici,
un'inchiesta che interessava familiari e vecchi colleghi, per valutare I'adattamento
sociale. Con questa dettagliata massa di dati, Hinkle et al. contribuirono a demitizzare,
nella comunità scientifica, alcuni caratteri dello stereotipo giornalistico
di lavaggio del cervello, quali l'infallibilità e l'efficacia. Il processo
di persuasione avrebbe inizio ancora prima dell'ingresso nei "campi di rieducazione"
e nelle prigioni, con l'atmosfera di sospetto che aleggia intorno ai possibili nemici
del nuovo regime, per motivi sociali o religiosi. Angosciato e isolato da congiunti
ed amici timorosi di venir compromessi, il sospetto vive ormai nella prospettiva dell'imminente
carcerazione. Le circostanze dell'arresto, talora artatamente drammatizzate, ne aumentano
il carattere intimidatorio. L'isolamento viene scandito da interrogatori, con torture
fisiche, umiliazioni, maltrattamenti, deprivazione di sonno, alimentazione povera,
abiti inadeguati. Gli inviti alla confessione ritmano gli interrogatori. I prigionieri
sono tenuti a scrivere, più volte, un racconto della propria vita. Attraverso
il confronto con le narrazioni di altri prigionieri i carcerieri possono scoprire
delle contraddizioni. Si chiedono sempre nuovi dettagli su quanto "è stato
nascosto". Man mano che cede alle pressioni, il prigioniero ottiene un allentamento
del regime cui è sottoposto: ha termine l'isolamento con alloggio in una cella
collettiva, dove peraltro le condizioni igieniche sono precarie, e "l'atmosfera è
terribilmente promiscua: non esiste uno spazio personale".
Il prigioniero può socializzare con dei compagni. Inizia allora uno "psicodramma"
in cui il prigioniero diviene carceriere per altri prigionieri, in un processo di
indottrinamento pilotato.
Come monito per chi non mostra "pentimento" per la vita trascorsa, giunge notizia
della esecuzione dei più recalcitranti, che si mantenevano ostili verso il
nuovo regime. Hinkle et al. analizzano i piccoli compromessi che i prigionieri iniziano
a fare con loro stessi, quanto basta per potersi identificare con dei valori adottabili
dai carcerati. Le esibizioni di conversioni, pubblicizzate dai mass media, avvengono
spesso in questo clima. La prospettiva è quella di essere ricompensati con
l'invio in "campi di lavoro" od anche con l'espulsione [6].
Anche Schein (1956), psichiatra statunitense che ha studiato reduci di campi di prigionia
nordcoreani, giunge a conclusioni analoghe: in Cina sono state solo combinate differenti
tecniche di persuasione come interrogatori, discussioni di gruppo con un attento controllo
delle informazioni trasmesse, richieste di autocritiche in un sistema con pene e ricompense
[7].
Erving Goffman in "Asylums" ha studiato attentamente i lavori di Hinkle e Schein sui
processi di indottrinamento e si serve delle descrizioni della vita nei campi di prigionia
cinesi, per la sua teorizzazione dell'istituzione totale [8]. Così i prigionieri
di guerra statunitensi che diventano "Pros" (proseliti) [7], vengono presi ad esempio
per proporre uno dei modi di adattamento al sistema di un'istituzione totale, la "conversione".
Scrive Goffman: "l'internato che si è "convertito" segue una linea più
disciplinata, più moralistica e monocromatica, presentandosi come colui che
mette a completa disposizione dello staff il suo entusiasmo istituzionale". Viene
così raggiunta "una sorta di opportunistica combinazione di adattamenti secondari,
conversione, colonizzazione, e senso di lealtà al gruppo, così che l'internato
si trova a disporre - in particolari circostanze - del massimo di opportunità
per poter uscire fisicamente e psicologicamente indenne" [8].
Brown (1977) ritiene che il successo della metafora del lavaggio del cervello possa
spiegarsi solo con la paura latente delle masse di venir manipolate [9]. È
ovvio che un ricercatore scientifico non farà mai una lettura metonimica del
lavaggio del cervello. La concezione in qualche modo dovuta al libro di Sargant "Battle
for the mind" [10], che un'idea possa essere inserita o tolta dal cervello e che sia
possibile far posto ad una nuova visione della vita, come quando si cancella la lavagna
è stata definita da Brown una "fiaba cinese".
Vi sono anche contributi, come lo studio di Ermentini e Gulotta (1971) in "Interrogatorio
e confessione", che sottolineano la possibilità di manipolazione attraverso
l'induzione di una "fatigue syndrome" [11]. Osservando soggetti sottoposti a trattamenti
stressanti [12], militari che avevano sostenuto un combattimento [13], veniva rilevata
una perdita della capacità di svolgere compiti familiari e di precisare luoghi,
tempi e persone. Con il perdurare dello "stressor" potevano osservarsi alterazioni
delle facoltà di giudizio, con fenomeni illusionali, allucinatori e deliranti.
Le tecniche di interrogatorio utilizzate dalla polizia di molti paesi, sono basate
essenzialmente sul martellamento inquisitorio e sulla deprivazione del sonno, che
inducono il soggetto a fornire informazioni, ma anche talora "confessioni" in seguito
ritrattate.
Hinkle (1961) sottolinea come un interrogatorio protratto possa forzare la volontà
[6].
Sargant (1957), a sua volta, mettendo in evidenza come la lunga tensione aumenti la
suggestionabilità, conclude che "se la giusta pressione è usata appropriatamente
e per un tempo sufficiente, per i normali prigionieri vi sono poche possibilità
di evitare il collasso. Solo persone eccezionali o mentalmente malate possono resistere
per lunghi periodi" [10].
Per Goffman la convinzione corrente che vi sia un punto di rottura per ogni uomo,
rinforzata da un'istruzione che tende a scongiurare il pericolo di ogni cedimento,
porta i prigionieri a rinunciare ad ogni resistenza, una volta fatta qualche ammissione
[8].
Moloney (1955) ha fornito un'interpretazione psicodinamica, che spiegherebbe come,
in individui con un Super Io autoritario, l'esperienza traumatizzante dell'interrogatorio
possa sconvolgere l'equilibrio, determinando un abbandono dell'Io all'autorità
del Super Io, cioè del Super Io parassita, rappresentato da colui che interroga.
La deferenza nei riguardi dell'autorità, favorita dalla situazione regressiva
dell'uomo prigioniero, consentirebbe anche di comprendere la cooperazione spontanea
dei prigionieri giapponesi, durante la seconda guerra mondiale [14].
Si ritiene peraltro che i metodi di costrizione fisica possano ottenere un controllo
temporaneo dei comportamenti di una persona finché perdurano le condizioni,
sia necessario far appello alla razionalità dell'uomo. Per Goffman, "se si
eccettua i casi di istituzioni religiose, né i processi di spoliazione né
quelli tendenti alla ristrutturazione, sembrano avere effetti duraturi, ciò
a causa - in un certo limite - della possibilità di mettere in atto adattamenti
secondari, dell'esistenza di contro-regole e della tendenza da parte degli internati
ad escogitare ogni mezzo per sopravvivere" [8]. Come prova l'Autore cita "il riadattamento
di prigionieri di guerra, rimpatriati, che erano stati sottoposti al brainwash" [6].
Nel 1974, con il caso Patricia Hearst, il "lavaggio del cervello" tornò nelle
prime pagine dei giornali. Come si ricorderà la giovane, appartenente ad una
famiglia proprietaria di una rete editoriale, venne rapita da un gruppo di terroristi
dell'Esercito di Liberazione Simbionese. Dopo qualche tempo iniziò a comparire
in messaggi filmati propagandistici dei terroristi ed anche a compiere azioni armate.
Arrestata l'anno successivo, il processo ricevette un'attenzione incredibile dei mass
media. La difesa fu impostata sulla tesi del lavaggio del cervello.
West e Lifton paragonarono il suo caso a quello dei prigionieri in Corea. Si registrò
però anche una autorevole presa di posizione contraria. Walter Reich, del National
Institute of Mental Health, denunciò il rischio per la credibilità della
psichiatria, che dei periti ridessero vita con una operazione negromantica al dissepolto
"lavaggio del cervello" [15]. La Hearst venne condannata.
La controversia lavaggio del cervello-deprogrammazione
Questo è il titolo del libro curato nel 1983 da David G. Bromley e James T.
Richardson che ci sembra rendere molto bene i termini della questione, e fornire indicazioni
sulla tensione emotiva che accompagna lo scontro [16]. L'applicazione del modello
del lavaggio del cervello alle tecniche di proselitismo usate dai culti emergenti
ha generato infatti un aspro scontro, che può essere compreso solo analizzando
i vissuti emotivi che si sviluppano a motivo dei valori in gioco, da un lato la libertà
di abbracciare una fede religiosa od uno stile di vita non conformista, che può
apparire "strano" in dati contesti sociali, dall'altro la tutela che la famiglia e
la società devono per quanti siano irretiti e plagiati. A questo punto sono
opportune alcune definizioni. Un'autorevole definizione di deprogrammazione è
quella di Ungereider e Wellish, secondo i quali consiste in "una serie di tecniche
attraverso le quali il deprogrammatore allontana di forza la persona, ammesso che
sia maggiorenne, dal culto o dal gruppo di appartenenza" [17]. Nel descrivere le tecniche
utilizzate, sottolineano la grande varietà delle stesse, che possono giungere
alla deprivazione di sonno e ad incontri molto prolungati ("maratona") in cui il soggetto
viene sottoposto a sovraccarico sensoriale di vario tipo. Parlano di martellanti dichiarazioni
negative riguardo al culto, spesso utilizzando urla, e ricorrendo a metodi di disorientamento
spaziotemporale come l'isolamento dagli altri membri del gruppo, il trasferimento
ripetuto della sede degli incontri e il cambiamento del ritmo sonno-veglia.
Definizioni invece di culto emergente, setta e "nuova religione" sono difficili sia
in ambito teologico che sociologico. Sono state tuttavia descritte alcune caratteristiche
proprie di tali gruppi, spesso indicati dagli anglosassoni con il termine "cults".
Di solito sono gruppi: 1) con una leadership di tipo autoritario, 2) con organizzazione
interna totalitaria ed omogeneizzante, 3) aggressivi nel loro proselitismo, 4) sistematici
nei loro programmi di indottrinamento, 5) relativamente nuovi negli USA (e, aggiungiamo
noi, in Europa) e 6) formati in prevalenza da persone provenienti dalla classe media
[18].
A titolo di esempio ricordiamo la Chiesa per l'Unificazione del Mondo Cristiano del
Rev. Moon, gli Hare Krishna, la Missione della Luce Divina, la Chiesa di Scientologia.
Nella presente rassegna utilizzeremo indifferentemente i termini nuovi culti e nuove
sette.
I toni del dibattito tendono a salire, ai tecnici si chiede di schierarsi, quasi fosse
possibile a priori stabilire, al di là del caso concreto, se esistono o meno
dinamiche manipolatorie.
Sembra di rilevare peraltro che alcuni, proprio per il valore che è in gioco,
ossia la libertà religiosa, pretendano non possa avere rilievo una valutazione
psicopatologica in merito alle dinamiche plagiarie, compendiantesi nella riduzione
di una persona nel potere di altri.
È opportuno offrire un saggio della complessità delle problematiche
affrontate, puntualizzando il ruolo che lo psichiatra viene ad assumere nella controversia.
Presentiamo qui alcune tesi contro la medicalizzazione dei problemi connessi con l'adesione
ai nuovi culti.
Lubin, del
Committe of Psychiatry and Religion per il
Group of the Advancement
of Psychiatry ha affermato come la società approvi le conversioni ad una
religione che aiuti lo status quo, mentre desideri eliminare i neofiti di culti che
minaccino le concezioni prevalenti "con l'esilio, l'imprigionamento o forme più
leggere di repressione e considerandoli come malati mentali" [19].
In una prospettiva storica Bromley e Shupe [1981] osservano come alcuni temi dell'attuale
polemica contro i nuovi culti riprendano i vecchi
leit motives delle campagne
nordamericane contro i Mormoni ma anche contro i Cattolici [20].
Gutman ha mostrato l'importanza del linguaggio impiegato dai mass media nella delegittimazione
dei nuovi culti: "Quel che vogliamo distruggere, viene dapprima chiamato in modo peggiorativo:
la religione si trasforma in setta, il Proselitismo in lavaggio di cervello, la persuasione
in propaganda, le missioni in centri sovversivi, i ritiri, i monasteri ed i conventi
in prigioni, i riti sacri in condotta strana, le osservanze religiose in comportamenti
aberranti, devozione e meditazione in "trance" psicopatologica" [21]. La medicalizzazione
dei gruppi religiosi "devianti" assume quindi come premessa che l'adesione al culto
sia in sé patologica, ossia aberrante rispetto al normale funzionamento dell'organismo.
Ne risulta che la persona "malata" è vittima dei processi patologici in essa
agenti e quindi il suo comportamento deviante è sottratto al controllo della
volontà e guidato da una sorta di compulsione (Conrad e Schneider, 1980) [22].
Questo legittima la sospensione delle normali aspettative e dei diritti del paziente
riguardo alla sua persona (Taber et al., 1969) [23]. Gli adepti dei nuovi culti vengono
così facilmente considerati delle vittime.
Shupe, Spilniann e Stigal (1977) hanno evidenziato il ragionamento implicito che viene
fatto per delegittimare l'adesione al culto:
-
Mio figlio, mia figlia, il mio congiunto ha abbracciato una strana religione.
-
Solo persone intrinsecamente "strane" potrebbero volontariamente essere attratte da
tale religione.
-
Mio figlio, mia figlia o il mio congiunto non è ovviamente una persona intrinsecamente
"strana".
-
Dunque egli o ella per aderire deve essere stato irretito o sottoposto a lavaggio
del cervello [24].
Thomas Szasz ha affermato a questo riguardo che "i genitori desiderano tanto credere
nel lavaggio del cervello, perché altrimenti dovrebbero ammettere che il bambino
al quale hanno dedicato 15 o 20 anni, li ha rifiutati insieme ai loro valori" [25].
D'altra parte il modello del lavaggio del cervello rappresenta un comodo alibi anche
per il convertito che voglia lasciare il culto: "So che quel che ho fatto è
sbagliato, ma non è colpa mia" [26].
Per applicare al proselitismo dei nuovi culti il modello del lavaggio del cervello
si è cercato di rilevare analogie tra le due situazioni. Il ritiro in luoghi
isolati priva i neofiti dalle influenze del mondo esterno e crea il contesto che favorisce
l'attuazione di molte "conversioni". Il processo di conversione ai nuovi culti viene
periodizzato in tre fasi da Clark (1981). Il primo stadio consiste nel cosiddetto
"controllo della motivazione" e nel tipico processo di spoliazione. Gli individui,
attirati nel gruppo, ricevono un'intensa attenzione personale, sono sottoposti a pressioni
sociali, bombardati da attività, deprivati del sonno e dell'alimentazione e
indotti sistematicamente in stati alterati di coscienza. Questa prima fase è
condotta in modo da "ammorbidire" e rendere il neofita più ricettivo ad idee
e ideologie, spesso strane, delle sette.
La seconda fase prevede il controllo della reazione, cioè a dire il training
e l'identificazione: il neofita è sottoposto ad una "maratona di conferenze
e di intense attività devozionali o confessionali, studiate per mantenere e
consolidare la ricettività del convertito". Questi è costantemente sollecitato
ad adottare le idee, le pratiche e i comportamenti approvati dalla setta. La terza
tappa è quella del controllo normativo e del rinascere di un nuovo Sé,
"una seconda personalità: la personalità della setta - inizia a poco
a poco ad acquistare una certa autonomia, nella misura in cui combatte con la vecchia
personalità per acquistare una posizione preminente nella coscienza" [27].
L'individuo ha così acquisito un nuovo Sé, sostenuto da una nuova visione
del mondo, uno speciale linguaggio, ruolo, attività, norme e relazioni sociali.
La descrizione di Clark è stata definita criticamente da Richardson e Kilbourne
[26] come un "quasi-lavaggio del cervello".
Shapiro [1977], a sua volta, riferendosi all'indottrinamento del culto lo definisce
come "menticidio... una pericolosa forma di coercizione mentale in cui la mente libera
viene attaccata" [27].
Nel dibattito sulla legittimità dell'affiliazione ai nuovi culti, un aspetto
retorico interessante è il racconto delle atrocità, che verrebbero subite
dagli adepti, soprattutto da quelli nuovi. I sociologi Bromley, Shupe e Ventimiglia
(1983) mostrano la funzione svolta dagli apostati, con i loro "atrocity tales" (racconti
di atrocità) [29].
L'atrocità "può essere definita un avvenimento visto come una flagrante
violazione di un valore culturale. Un racconto di atrocità presenta quell'avvenimento
(reale o immaginario) in modo tale da suscitare disgusto morale, specificando e dettagliando
le violazioni del valore, autorizza implicitamente o esplicitamente sanzioni punitive,
e mobilita tentativi di controllo di quanti hanno perpetrato le atrocità".
Sono state sottolineate anche radicali differenze tra il lavaggio del cervello operato
nei campi di concentramento coreani (POW camps) e l'affiliazione ai nuovi culti [30].
Mancherebbe in questi ultimi la costrizione fisica [31, 32, 33]; non vi sono inoltre
i processi di decondizionamento, definiti "stripping", che precedono l'indottrinamento
vero e proprio [34]; e infine nelle sette vi è un minor grado di isolamento
[26] e di controllo delle informazioni [18, 33]. Vi è anche chi dubita che
comportamenti o credo religiosi possano essere adeguatamente spiegati come meri prodotti
di condizionamento [35].
Un ultimo gruppo di argomentazioni contro l'applicazione della metafora del lavaggio
del cervello alle nuove sette è di tipo filosofico-libertario: "La libertà
di credere comprende la libertà di definire le proprie esperienze nell'ambito
di un gruppo ideologico", in altri termini considerarsi "risvegliati" ad una nuova
esistenza piuttosto di ritenere di aver subito il lavaggio del cervello [36].
In assenza di coercizione fisica tangibile, con quali criteri si dimostrerà
l'esistenza di un cervello lavato o di un volontà prigioniera? [18] Solomon
osserva che nelle tecniche di persuasione impiegate sia per i neofiti che per gli
adepti sottoposti a deprogrammazione è possibile in realtà rinvenire
elementi quali l'isolamento dall'abituale ambito di vita e la monopolizzazione delle
informazioni. "Per verificare se la metafora del lavaggio del cervello può
essere equiparata ai processi di discussione, bisogna utilizzare come criterio non
tanto la presenza o l'assenza degli elementi citati, quanto l'intensità della
loro applicazione".
E ancora la Solomon mette in guardia dal considerare in modo più rilevante
invece che la forma o la sostanza delle tecniche di persuasione, i motivi di coloro
che le attuano. Sottolinea però la difficoltà di un giudizio "tecnico"
che si limiti ad un'analisi dei metodi di indottrinamento, e non consideri la dottrina
stessa. Di fatto ci si arrogherebbe il giudizio circa la legittimità delle
tecniche di persuasione sulla base di una impostazione dottrinale del tecnico [37].
Del resto i temi religiosi sono scarsamente trattati nella letteratura e nella stessa
concettualizzazione psichiatrica dei comportamenti umani [38]. Larson et al. notano
come la religione sia stata molto più trattata dagli psicologi e dai sociologi
piuttosto che dagli psichiatri, con il risultato che questi ultimi hanno nell'approccio
ai fenomeni psicopatologici scarse capacità di discernimento rispetto a fenomeni
di matrice più strettamente religiosa. Nella forma più rozza, sostengono
Larson et al., la psichiatria considera la religione come nevrotica, immatura o come
"sfogo" per il soggetto disturbato mentalmente. Ciò sarebbe in contraddizione,
secondo gli Autori citati, con le ricerche psicosociali che dimostrano come i malati
mentali siano meno religiosi... mentre i soggetti psicologicamente sani lo sarebbero
di più [38].
La discussione sul plagio, in rapporto alle nuove sette, ha avuto particolare risonanza
in Italia, a proposito delle vicende giudiziarie di Scientology.
Nella perizia riguardante la comunità
Narconon gestita dalla Chiesa
di Scientology, i periti di ufficio [39] sostenendo che non può esservi circonvenzione
senza suggestione (visto che il reato di plagio è stato cancellato dal Codice
di Procedura Civile nel 1981) descrivono un ''clima plagiante''. Il modo in cui avviene
la tessitura del proselitismo, il modo sempre rassicurante di avvicinare il futuro
adepto, la proposta di un misterioso mutamento della "qualità della vita",
la fase di approccio preliminare sono gravidi di un'implicita induzione del concetto
di "iter non abbandonabile" e il tentativo di plagio quindi si realizzerebbe con un
duplice meccanismo: con il suscitare sensi di colpa per chi abbandona o tradisce l'organizzazione,
ma anche con la progressiva spinta del soggetto verso vissuti di terrore, angoscia,
vendetta che inevitabilmente verrà ad incombere su di lui e i suoi congiunti.
Un altro elemento di persuasione, induzione e suggestione è rappresentato dalla
prospettiva di
"far carriera" nell'ambito della setta offerta al neofita [39].
La perizia di parte, redatta dal Prof. A. Ermentini, si regge su due cardini: la dimostrazione
che Scientology è una religione ispirata alla tradizione culturale orientale,
in particolare induista, e la mancata dimostrazione, nell'accusa, di uno stato di
deficienza psichica o di infermità mentale della parte lesa, condizioni che
motivano il reato di circonvenzione d'incapace 643 C.p. Mentre la discussione sulla
deficienza psichica si sviluppa intorno a problemi di metodologia di indagine, l'argomento
religioso si ispira al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d'America,
fondato sulla libertà religiosa. In questo modo verrebbe sottratta Scientology
anche ai rischi di imputazione per truffa o per esercizio abusivo della professione
medica [40].
La complessa rete di argomentazioni esposte sopra, contro la medicalizzazione dell'affiliazione
alle nuove sette, rende tuttavia evidente la svalutazione del sapere psichiatrico,
laddove si afferma che è difficile verificare l'applicazione di criteri per
valutare la coercizione della volontà.
Discuteremo ora dei problemi più strettamente psicopatologici legati all'affiliazione
alle nuove sette e alla deprogrammazione, evidenziando come proprio con l'ausilio
delle scienze psichiatriche e psicologiche si possano interpretare questi fenomeni
emergenti.
I culti emergenti in prospettiva psicopatologica
Numerosi e differenti tra loro sono i gruppi religiosi che andrebbero presi in considerazione.
Tuttavia, in base agli studi fatti e alle caratteristiche comuni dei gruppi, presentiamo
una rassegna generale che puntualizzi: 1) l'affiliazione al gruppo, 2) la personalità
dei soggetti, 3) le modificazioni psicologiche degli adepti al culto.
1) L'afflliazione al gruppo
I gruppi dei nuovi culti sono stati inquadrati da Galanter [41] nel modello dei "grandi
gruppi terapeutici". Il grande gruppo viene definito come "la solida associazione
di un gran numero di persone che si riuniscono spesso in gruppi più piccoli
e condividono in modo zelante una certa filosofia di vita con specifici rituali. I
ruoli sociali e le norme di comportamento dei membri del gruppo vengono ridefinite
in rapporto ai fini e alle funzioni del gruppo" [42]. Studi naturalistici e anche
sperimentali sui processi di affiliazione hanno messo in luce che il rapporto tra
le relazioni con i membri del gruppo e le relazioni con persone di altri ambienti
precedenti di appartenenza è al centro della durata di permanenza nel culto.
Quanto più deboli [42] e carichi di ostilità [17] sono i rapporti familiari,
tanto più forti risultano i legami entro il nuovo gruppo e quindi destinati
a durare nel tempo.
Un'altra variabile importante risulta essere la presenza nel gruppo di "veterani soddisfatti"
della loro esperienza insieme ai nuovi adepti [42]. I meccanismi di "modeling" comportamentale
e di identificazione sono alla base dei risultati derivanti da tale mescolanza. Questi
meccanismi sono tuttavia alla base di molti gruppi, religiosi e non, e costituiscono
un metodo preciso per gruppi di autosupporto ["self-help groups"] come quello degli
"Alcolisti Anonimi".
L'affiliazione ai nuovi culti ha trovato anche spiegazioni di tipo psicodinamico.
"Stabilendo rigidi controlli e sistemi di credenze, i culti allontanano dalle responsabilità
individuali, impedendo così la crescita futura e la formazione dell'identità"
[43]. L'abbandono della propria identità spesso accompagna l'attaccamento al
gruppo nei
settings previsti dai culti [44] giungendo al conflitto tra nuova
e vecchia personalità già descritto da Clark [27], ed illustrato nella
prima parte della rassegna. L'insistenza sulla formazione dell'identità deriva
dal fatto che la grande maggioranza dei soggetti aderenti ai nuovi culti è
di età compresa tra l'adolescenza e l'età adulta. Qui si acuiscono i
conflitti personali e familiari volti a raggiungere, secondo il modello di Erikson,
una nuova identità che sostituisce quella infantile, permettendo l'acquisizione
di una più stabile definizione di sé e dei propri ruoli sociali [45].
Spero [46] considera l'affiliazione ad un culto come il risultato di diversi fattori:
una disposizione verso soluzioni regressive dei conflitti, le travolgenti difficoltà
incontrate nella vita moderna e le tecniche di indottrinamento operate nei culti e
destinate a manipolare tali variabili.
Un fattore cruciale nell'arruolamento del nuovo adepto è la vulnerabilità
che deriva da una scadente relazione padre-figlio [47]. Per Schwarz e Kaslow coloro
che godono di una soddisfacente relazione con un padre valido non necessiterebbero
di far parte di un'organizzazione guidata da una figura paterna onnisciente ed onnipotente
[47]. Ricordiamo infatti che una caratteristica dei nuovi culti è quella di
avere un'organizzazione interna altamente totalitaria e gerarchica con un leader molto
autoritario [18]. Quella di Schwarz e Kaslow è una suggestiva interpretazione
psicodinamica, che tuttavia non sembra essere particolarmente specifica dei nuovi
culti e soprattutto non discrimina all'interno di essi.
2) La personalità dei soggetti aderenti ai nuovi culti
In questo campo le differenze metodologiche sono così rilevanti da inficiare
conclusioni definitive. Sembra tuttavia di poter descrivere con chiarezza alcuni elementi.
Una prima distinzione andrebbe operata tra coloro che, pur afflitti da problemi di
maturazione, utilizzano il gruppo per affrontare normali conflitti adolescenziali
e coloro che sono più seriamente disturbati ed utilizzano il gruppo in modo
patologico [43]. I primi otterrebbero anche un notevole beneficio da una corretta
psicoterapia volta ad una maturazione del loro sviluppo adolescenziale. Il secondo
gruppo sarebbe invece più chiaramente patologico e resistente al trattamento
psicoterapico; secondo Etemad [48] costituirebbe i 2/3 del totale comprendendo "giovani
depressi, inadeguati e borderline antisociali".
Un'altra, più complessa, distinzione è operata da Ungerleider e Wellish
sulla base di una ricca metodologia psicometrica [17]. Distinsero soggetti rimasti
nel gruppo (includendo coloro che sono rimasti per paura della deprogrammazione e
coloro che sono rientrati dopo la deprogrammazione) da soggetti usciti, sia volontariamente
che deprogrammati. Nel primo gruppo, al M.M.P.l. si evidenziò una difficoltà
nel controllo degli impulsi in diverse aree con relative deficienze superegoiche,
così che i culti risultavano servire come sostituti esteriorizzati del Super
Io. In particolare le difficoltà emergevano nel controllo dell'ostilità.
Accanto allo scarso "insight" emergevano difese come l'eccessivo conformismo, la rimozione
e la negazione. Nel secondo gruppo, invece, dominavano l'alienazione sociale ed emotiva
e la scarsa forza dell'Io. Tutti i gruppi non evidenziarono deficit intellettivi al
W.A.I.S., ma rientravano nel modello definito da Lifton "grandi affamati di ideologia"
[49]. I culti risultavano così un nutrimento per la loro fame "ideologica"
così come un sollievo per la loro ambivalenza e conflittualità interiore
[17]. Un altro dato che emerge per tutti, ad esclusione di coloro che si allontanarono
volontariamente, è il forte bisogno di affiliazione, di istituire forti legami
emotivi, problema già presente prima di aderire al culto. Coloro che rimangono
nel gruppo mostrano addirittura di sentirsi dominanti e protagonisti alla scala ICL
(
Interpersonal Check List). Ciò è in contrasto con la reale struttura
gerarchica interna al gruppo e può essere spiegato secondo il meccanismo di
dissonanza cognitiva [17, 46].
Anche se con metodi standard non è stata rilevata la presenza significativa
di malattia mentale negli aderenti ai culti in un campione di 50 soggetti [17], molte
persone, prima di aderire al culto, erano state in trattamento psicologico e talora
ospedalizzate [50, 51, 52]; circa un quarto, poi, di un altro campione aveva avuto
gravi problemi di tossicodipendenza [50].
La descrizione più completa, sul piano della personalità, degli adepti
prima della "conversione" al culto è stata data da Spero [46] dopo un'indagine
su 65 soggetti utilizzando riferimenti psicodinamici e un'ampia batteria di tests:
W.A.I.S., Bender-Gestalt Test, Draw-A-Person Test, Sentence Completion Test, T.A.T.,
proiettivo Rorscharch. Emergono due fondamentali modelli personologici: uno guidato
da rigidi processi cognitivi con una chiara inclinazione per la stereotipia, e un
altro caratterizzato da negazioni maniacali di dinamiche depressive, con scarsa differenziazione
psicologica, risposte emotivamente labili e poco controllate, e infine esprimente
relazioni oggettuali irrealistiche ed idealizzate. Anche sul profilo rigido descritto
per primo si possono inserire reazioni maniacali nella fase di uscita dal gruppo quando
la figura del leader viene spogliata della precedente idealizzazione con la conseguente
dolorosa perdita oggettuale. Entrambi i profili sono caratterizzati da: a) relazioni
interpersonali molto dipendenti ed eterodirette, b) proiezione di elementi negativi
e odiati di sé e degli altri precedentemente introiettati, c) precoci esperienze
orali intensamente ambivalenti o insoddisfacenti, d) aspetti narcisistici, e) un indebolimento
di giudizio critico e delle facoltà di ragionamento, f) aspetti del senso di
realtà moderatamente o gravemente indifferenziati (nella distinzione, per esempio,
tra interno ed esterno, tra passato e presente, nel mantenere individuati i confini
del sé, nel rapporto tra sogno e memoria etc., g) una tendenza, in alcuni,
alla scissione dell'imago e dell'Io (soprattutto evidenziati al T.A.T.), h) in generale,
dunque, l'utilizzazione di meccanismi di difesa, senso di realtà e relazioni
oggettuali fortemente preedipici.
Molte caratteristiche evidenziate dagli adepti ai nuovi culti, come la passività,
la confusione dell'identità, e gli scarsi confini del sé sono correlate
con uno stile cognitivo fortemente dipendente dal campo e psicologicamente indifferenziato
[53, 54]. Questo spiega l'inclinazione a legarsi a compagnie di persone che a loro
volta siano regredite a livelli di scarsa differenziazione tra sé e non sé
[46]. Lo stile cognitivo di dipendenza dal campo sembra essere la variabile più
direttamente correlata con l'affiliazione ad un nuovo culto [46].
Precisiamo che il campione studiato da Spero era un gruppo di ex-adepti di vari culti
che accettarono di sottoporsi a psicoterapia per il reinserimento negli abituali ambienti
di vita. Inoltre le caratteristiche personologiche dei soggetti studiati invitano
a riconoscere lo stile di dipendenza dal campo come preesistente, in gran parte, all'adesione
al culto. Simmonds, a sua volta, ha parlato di "addictive personality" (personalità
tossicodipendente) [55] che utilizzerebbe la setta come una droga con i medesimi effetti
di "ristoro". Infine, rimane da studiare l'affiliazione e la personalità dei
soggetti aderenti a gruppi simili a quelli dei culti per struttura gerarchica, leadership
autoritaria e mescolanza di "nuovi e vecchi" adepti: tali gruppi potrebbero costituire
vere e proprie popolazioni di controllo.
3) Le modificazioni psicologiche degli adepti
Anche qui i pareri si dividono. Galanter ha parlato di "relief effect", cioè
di sollievo, poiché la proposta del gruppo avviene in un momento favorevole
per il soggetto, pronto per il cambiamento [41]. Vengono offerti dalla setta regole,
autorità e nuovi ruoli che garantiscono sicurezza e senso di dominanza [17].
Nonostante siano verificabili contestualmente anche elevate quote di ansia e compulsioni
mediante tests incrociati, nella dichiarazione dei soggetti prevale la soddisfazione
[46] e questo, come si è detto, può essere spiegato come una dissonanza
cognitiva comune ad altri gruppi terapeutici [41, 56]. L'effetto di sollievo è
tanto più spiccato quanto più anziana è l'appartenenza al gruppo
[42]. A questo proposito, ricordiamo che Lifton stesso ha parlato di "personal change"
per descrivere la soddisfazione che trae il soggetto dalla "conversione" che capiterebbe
nel momento per lui più giusto [49]. Il "personal change" viene distinto dal
"thought reform" (riforma del pensiero), termine che egli utilizzò per descrivere
più scientificamente il lavaggio del cervello [49].
L'effetto di "sollievo" sembra comunque convalidato da numerosi studi sulle sette
più affermate, soprattutto sui Moonies, molto studiati negli U.S.A. [50, 52,
57]. Griffith et al. descrivono una notevole diminuzione del disagio nevrotico alla
scala del S.C.L. - 90 in soggetti che hanno sperimentato la meditazione contemplativa
[Mouning] dei Battisti Spirituali [58]. Vengono descritti altri benefici come l'astensione
da droghe [50, 59, 60] con controllo anche sul consumo compulsivo di caffè
[50], prevenzione del suicidio [61] e recupero di ruoli sociali contro l'anomia e
la confusione morale [62].
Le metodologie sono comunque molto diverse e gli studi anamnestici sono inficiati
dalla brevità del periodo analizzato, per cui risultano in gran parte studi
trasversali ed il campione utilizzato può modificare radicalmente i risultati.
Per esempio, come non tenere conto dell'ostilità che da taluni è rivolta
alla famiglia prima della conversione, da altri dopo la conversione, e da altri ancora
è rivolta contro i deprogrammatori [17, 18]. In ogni caso i punteggi sulle
scale di "benessere" [
well being] spesso migliorano dopo I'adesione ai culti;
rimangono tuttavia inferiori, nella media, a gruppi di controllo appaiati per sesso,
età e condizione sociale [42, 50].
A lato degli studi esposti che mostrano dati di miglioramento psicologico e sociale
o, al limite, di soddisfazione da dipendenza, esponiamo descrizioni "drammatiche".
Etemad, esperto in deprogrammazione, riferisce come "giovani prima brillanti e creativi
siano resi incapaci di ironia e di metafore e si Iimitino ad un vocabolario attentamente
ristretto, pieno di clicheés e di idee stereotipate... Molti hanno difficoltà
nell'astrazione" [48]. La stereotipia del linguaggio con difficoltà a condurre
una normale conversazione, e il modo di pensare dicotomico (in "bianco e nero") fanno
parte delle descrizioni anche di altri autori [46]. Spero propone altri elementi come
i processi di pensiero rigido, fobico anche paranoideo, espressioni emotive spontanee
alternate a stati di preoccupazione autistica, una immagine di sé svalutata,
oscillazioni di umore, depersonalizzazione, distanziamento da precedenti identificazioni
ed obbedienza cieca al leader [46].
Un atteggiamento di entusiasmo maniacale per le credenze del culto è molto
frequente e può accompagnarsi ai fenomeni simili alla depersonalizzazione che
gli adepti definiscono "to feel blissed out"; questa fase, tuttavia, normalmente sarebbe
solo passeggera [18] e viene definita di "entusiasmo" [60] o di "luna di miele" [62].
Un inquadramento nosografico è stato tentato da alcuni periti psichiatri negli
U.S.A. [63] che hanno parlato di "disturbo dissociativo atipico" secondo il D.S.M.-III.
Essi utilizzano descrizioni di Moonies, ove questi vengono paragonati a "zombie":
tali soggetti solevano infatti parlare del loro "vuoto interiore" ed assumevano posture
rigide e stereotipate. Per Lunde e Sigal [64] non è possibile, in base a queste
descrizioni, stabilire quanto pesa la personalità precedente alla conversione,
e in ogni caso è opportuno che i periti siano molto prudenti nell'utilizzare
tale etichetta diagnostica. Stephen Ash sottolinea a sua volta come i cardini della
psicopatologia indotta nei culti siano la dissociazione e la sfumatura dei confini
dell'Io distinguendo, peraltro, queste esperienze da quelle tipicamente mistiche e
da altri disturbi di personalità come la personalità multipla, borderline
e narcisistica [65].
È da notare come molte descrizioni psicopatologiche derivino dalle osservazioni
fatte all'uscita degli adepti dal culto, o in fase di psicoterapia successiva. Vengono
anche osservate in questa fase reazioni traumatiche d'ansia e fenomeni tipicamente
borderline.
Ricorrono infatti i fenomeni di "slippage" e "floating" già descritti da Clark
[27] e da Goldberg e Goldberg [66] duranti primi mesi di trattamento dopo l'uscita
dalla setta. Per "slippage" si intende deficit cognitivo temporaneo con incapacità
di trattenere un pensiero, di rispondere a domande e con perdita della distinzione
tra il concreto e la metafora. Il "floating" è invece un disturbo delle funzioni
egoiche del senso di realtà con esperienza soggettiva di depersonalizzazione
[46].
La deprogrammazione
Un'autorevole definizione di deprogrammazione è stata data da Ungerleid e Wellish
ed è esposta nella prima parte di questo studio [17].
Si espone ora un panorama di interpretazioni assegnate a tale termine.
Eileen Barker analizza gli effetti prodotti dalla deprogrammazione: evidenzia come
in alcuni casi essa paradossalmente rinforzi i legami con i gruppi incrementando il
fanatismo tra essi [34]. Secondo le testimonianze dei seguaci dei culti i deprogrammatori,
dopo il "rapimento", propongono un rovesciamento completo dei valori [67]: ciò
che gli adepti credono vero viene definito falso e sbagliato. Etemad, noto come uno
degli psichiatri che maggiormente si sono dedicati alla deprogrammazione, sottolinea
l'importanza degli incontri-maratona in cui viene "sezionata" la figura del leader
del gruppo e si svolge una puntuale rivisitazione critica dell'esperienza della conversione
al culto. Il risultato finale sul piano terapeutico sarebbe una sorta di "abreazione"
in grado di riportare il soggetto alla "normalità" [48]. Eileen Barker, invece,
rileva che - ciò che viene avvertito come intollerabile è il sentimento
di impotenza, durante la forzata separazione dal gruppo [34]. I sociologi Bromley
e Shupe nella loro opera più famosa "Strange Gods" riportano numerosi racconti
di deprogrammatori e notano la retorica emotiva da essi utilizzata [20]. La tecnica
sarebbe infatti quella di enfatizzare esperienze di conversione ai culti o selezionarne
alcune particolarmente drammatiche per convincere il "deprogrammando" delle aberrazioni
insite nel culto. Tuttavia, a nostro parere Bromley e Shupe tendono ad utilizzare
spesso la medesima tecnica per stigmatizzare l'opera dei deprogrammatori estendendo
la critica anche a chi si occupa degli adepti ai culti o degli ex-adepti con modalità
certamente diverse dalla deprogrammazione. Per converso Ted Patrick, noto deprogrammatore
di estrazione non psichiatrica, scrive nel suo libro "Let our children go!": "Tutto
quello che voglio e faccio è per far tornar loro la capacità di pensare
da sé, di esercitare la propria libera volontà che i culti hanno messo
in frigorifero!" [67]. Altrove dichiara: "...è come tornare alla luce in una
stanza buia o afferrare una persona indietro dai morti…" [67].
I metodi che vengono definiti deprogrammazione sono, lo ripetiamo, molto eterogenei
e, come si è visto sono stati, al pari della conversione al culto, oggetto
di molta retorica. Tali sistemi, comunque, potrebbero essere definiti "coercive deprogramming"
[deprogrammazione forzata]. Robbins e Anthony hanno messo in guardia contro la "nuova
inquisizione", formulata in termini di igiene mentale e di liberazione dal lavaggio
del cervello [18]. J.F. Mayer nota come paradossalmente somigli più ad un lavaggio
del cervello la deprogrammazione che non le tecniche di conversione adottate dai nuovi
culti [68].
Escludendo i metodi più coercitivi, Rabbi Maurice Davis, fondatore di uno dei
primi gruppi anti-sette, il Citizens Engaged in Reuniting Famìlies, propone
di chiamare "reevaluation" [rivalutazione], pratiche come il dibattere ed il conversare
che alcuni definiscono impropriamente deprogrammazione, per il fatto che tendono ugualmente
ad allontanare il soggetto dal culto [69]. Alcuni psicoterapeuti americani hanno utilizzato
metodi volti al reinserimento degli adepti negli ambienti di provenienza rielaborando
l'esperienza del culto: a nostro parere questa non è altro che psicoterapia
individuale di tipo psicodinamico e che si avvale dell'intervento di supporto della
famiglia [43,46]. Il trattamento non è coercitivo e mira al raggiungimento
di relazioni oggettuali più mature. Dettagli sul metodo vengono egregiamente
descritti nei lavori di Spero [46] e di Schwartz [43]. Il primo autore ha descritto
anche una "sindrome di uscita dalla setta" [
postcommitment syndrome]: "Gli
ex-adepti sono inizialmente depressi ed irritabili... cauti nell'intraprendere nuove
relazioni interpersonali, ed in seguito esprimono la loro felicità per essere
tornati alla normalità. Da ultimo si presentano due possibilità. L'ex
adepto si dedica in modo massiccio all'attività anti-culto (diventa "l'apostata")
oppure entra in uno stato di anomia sociale e di insicurezza risultando più
facile un ritorno alla setta di provenienza [46].
Considerato l'acceso dibattito che investe le pratiche di deprogrammazione riteniamo
che ogni eventuale disciplina giuridica del problema debba tenere conto innanzitutto
della distinzione tra i vari tipi di metodi utilizzati nell'allontanamento dei soggetti
dal culto. Tale distinzione rimanda, a sua volta, alla valutazione della personalità
del soggetto e ai trattamenti cui è stato sottoposto durante la conversione
al culto.
Conclusione
Nella rassegna presentata abbiamo cercato di illustrare in modo critico il ruolo della
psichiatria nel dibattito sulle dinamiche di affiliazione ai nuovi culti.
La dizione "lavaggio del cervello" è indubbiamente semplicistica e in realtà
viene riformulata nella letteratura scientifica in vario modo: riforma del pensiero
[49]. coercizione mentale [18].
Senza la pretesa di medicalizzare questo campo, pensiamo che rientri nelle competenze
dello psicopatologo la valutazione di dinamiche plagiarie che possono svilupparsi,
e che tale valutazione vada condotta sulla situazione concreta. Del resto rifiutare
a priori l'intervento tecnico dello psichiatra, sia pure con l'argomentazione che
è in gioco la libertà religiosa, significa rinunciare ad accertare se
alcune persone siano state sottoposte a rilevanti manipolazioni del loro stato psichico.
Riteniamo che vadano valutati in primo piano i metodi utilizzati nella "conversione"
al culto e nella deprogrammazione: in ogni caso occorre la consapevolezza che su tale
valutazione pesa in modo particolare la visione di vita dello psichiatra, il quale
nella sua formazione tecnica è spesso poco preparato ad analizzare il posto
che occupa la religione nella vita dei propri pazienti [38].
Gli studi sull'affiliazione alle sette dal punto di vista psicopatologico sono una
fonte suggestiva di dati per interpretare sempre meglio la partecipazione dei pazienti
ai gruppi di psicoterapia e di auto-terapia (v. Alcolisti Anonimi) [42].
Infine riteniamo che il sapere psichiatrico possa contribuire ad interpretare in modo
fecondo i fenomeni di conversione religiosa solo conservando la necessaria prudenza
laddove sono in gioco importanti valori di libertà di coscienza.
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