L'idea mi venne quando un amico mi
regalò un bonsai, un albero nano, e mi disse: "In questo Paese fanno
lo stesso con gli esseri umani: a forza di potarli e tagliarli li fanno
crescere tutti su misura".
Tokyo, Febbraio 1990
Il gran segreto dei giapponesi è
nelle loro fabbriche. La radice del loro successo economico è tutta
lì, nella precisione, nell'efficienza con cui producono le cose.
La fabbrica giapponese di più grande successo è quella che
produce i giapponesi stessi: la scuola.
Ogni anno, dalle automatizzate catene di
montaggio del sistema scolastico, escono ventotto milioni di ragazzi e
ragazze. Come tutti i prodotti giapponesi, questi giovani sono di ottima
qualità e di grande affidamento. Allo stesso tempo però sono
standardizzati, senza individualità, come tutte le cose fatte in
serie.
I bambini giapponesi frequentano per nove
anni la scuola d'obbligo. Il 94 per cento arriva fino alle scuole medie
superiori, il 36 per cento s'iscrive all'università. I risultati
di questa fabbrica sono impressionanti. Nonostante le enormi difficoltà
della lingua - vanno, per esempio, imparati tre diversi sistemi di scrittura
- tutti i giapponesi finiscono per saper leggere e scrivere. A far di conto
sono ugualmente bravissimi: nei concorsi internazionali di matematica gli
studenti giapponesi si piazzano regolarmente primi. Anche nella musica
riescono bene. Fra i partecipanti ammessi al concorso Chopin di Varsavia
almeno un quarto è giapponese. Quasi nessuno però
riesce a entrare in finale. "È impossibile distinguere l'uno dall'altro",
ha spiegato poco tempo fa uno dei giudici. "Suonano tutti allo stesso modo."
In Giappone, la strada più sicura
per avere successo è quella della scuola ed è così
che ogni giapponese, fin da piccolissimo, viene messo sotto torchio perché
studi. Un terzo dei giapponesi viene costretto dalle famiglie ad andare
a scuola all'età di tre anni, la metà a cinque. "A vent'anni
un giapponese è disciplinato, docile e rispettoso dell'autorità",
dice lo scrittore Shuichi Kato. "La scuola è efficientissima: riesce
a trasformare piccoli esseri umani in tante foche ammaestrate."
Secondo alcuni esperti questo sistema scolastico,
che sforna a getto continuo giapponesi diligenti e non ribelli, sarebbe
alla base della stabilità del Paese; il "miracolo economico" del
dopoguerra avrebbe le sue radici nel "miracolo dell'educazione". Secondo
altri, invece, il tallone d'Achille del colosso Giappone sarebbe proprio
in questo tipo di scuola che alleva gente incapace di affrontare i problemi
del futuro. "Se non la finiamo al più presto con questa produzione
in massa di robot di seconda categoria, il Giappone nel prossimo secolo
si sfascerà", mi dice Naohiro Amaya, ex vice ministro del MITI,
il ministero per il Commercio Internazionale e l'Industria, e oggi
uno dei dirigenti del colosso pubblicitario Dentsu. "Abbiamo sempre più
bisogno di giovani creativi, dotati di fantasia, ma le nostre scuole continuano
a darci esattamente il contrario."
Sebbene nel Giappone stesso gli svantaggi
dell'attuale sistema scolastico vengano discussi e suscitino crescenti
preoccupazioni, molti stranieri continuano a stravedere per questo sistema
e alcuni propongono persino d'importarne certi aspetti nei nostri Paesi.
Un recente studio americano, per esempio, definisce la scuola giapponese
"altamente efficace e democratica". "La considerano democratica perché
a ogni bambino viene propinato lo stesso tipo di educazione. In realtà
questa forma di egualitarismo è una nuova forma di totalitarismo",
sostiene Steven Platzer, un pedagogo dell'università di Chicago,
ora all'università di Tokyo.
L'impressione che si ha degli studenti
giapponesi è quella di una massa rigidamente controllata e continuamente
sotto pressione. A vederli uscire al mattino dalle stazioni della metropolitana,
tutti nelle loro uniformi scure, i più piccoli con la cartella sulle
spalle, e mettersi poi rigidamente in fila, sugli attenti nei cortili delle
scuole, si pensa più a soldatini che a scolari.
Ogni scuola ha la sua uniforme. Tutte derivano
dallo stesso modello prussiano che il Giappone adottò nel secolo
scorso, quando improvvisamente il Paese, per modernizzarsi, decise di copiare
tutto quel che poteva dall'Occidente: una gonna blu scura a pieghe con
camicia alla marinara per le ragazze; pantaloni neri con giacca abbottonata
fino al collo per i maschi. I berretti son quelli che erano di moda nella
Germania di Bismarck.
Ogni scuola ha i suoi regolamenti. L'osservanza
è d'obbligo. Ogni dettaglio è precisato: dalla lunghezza
delle gonne alla misura delle cartelle, al colore dei calzini. I maschi
devono portare i capelli a spazzola e nasconderli nel berretto; le femmine
non possono né tingerseli né farsi la permanente. Se una
ragazza ha riccioli naturali o i suoi capelli sono di una tonalità
diversa da quella corvina della maggioranza dei giapponesi, è necessario
che abbia sempre con sé un apposito certificato per spiegare la
sua "anormalità". Una scuola, per esempio, ha stabilito che le scarpe
da ginnastica degli studenti devono avere dodici buchi per le stringhe,
un'altra che le ragazze possono portare solo mutandine bianche. La madre
di un ragazzo di Tokyo, che durante una gita scolastica a Nara, a 370 chilometri
dalla capitale, era stato scoperto con un paio di pantaloni un po' più
stretti di quanto stabilito, ha dovuto raggiungerlo al più presto
per portargliene un paio di taglio regolamentare e impedire così
che venisse punito.
I modi con cui gli studenti pagano per
i loro atti d'indisciplina variano da scuola a scuola, ma spesso le punizioni
sono fisiche, comportano una qualche forma di violenza. Il caso di un professore
che è andato a casa di una sua allieva per suggerirle di suicidarsi
con un coltello da cucina, dopo che era stata scoperta a fumare, è
certo eccezionale, ma i giornali riferiscono in continuazione episodi di
violenza che avvengono nelle scuole. Secondo una recente inchiesta del
ministero della Pubblica Istruzione, uno studente su tre nelle scuole medie
ha subito una qualche punizione fisica. Di questi il 70 per cento ha riportato
ferite. Un professore di liceo ha scritto indignato al quotidiano Asahi
per raccontare di aver visto nella sua scuola "ragazzi cui è
stata rapata la testa, altri presi a schiaffi o rinchiusi di forza negli
armadietti degli spogliatoi".
Almeno cinque ragazzi negli ultimi due
anni sono morti in seguito alle violenze subite a scuola, ma nonostante
le proteste di alcuni genitori, l'uso di punizioni fisiche, di per sé
illegale, viene generalmente accettato. "I genitori sono stati a loro volta
picchiati quand'erano ragazzi e pensano che un maestro che picchia sia
seriamente impegnato nel suo lavoro", spiega Kenichi Nagai, fondatore di
un gruppo civico per la protezione dei diritti dell'infanzia.
In Giappone il conformismo è considerato
una grande virtù e la pressione a sottomettersi, a non disturbare
"l'armonia sociale" con atteggiamenti individualistici comincia prestissimo.
"Le affido mio figlio perché ne
faccia un buon membro della società, uno che non dia noia agli altri",
è la formula più comune usata dalle madri giapponesi quando
portano per la prima volta i loro bambini all'asilo.
È all'asilo che il "montaggio" di
un buon giapponese comincia. Fermo, con le mani sulle ginocchia unite,
la schiena dritta, il piccolo giapponese si abitua a occupare poco spazio
e a controllare i propri movimenti. Subito impara a rispettare i regolamenti.
Molti asili non solo esigono che tutti i bambini si portino la stessa merenda,
ma impongono anche che sia sistemata secondo un modello preciso nell'apposito
contenitore e che i bambini la mangino in una precisa sequenza.
A scuola il bambino non viene abituato
a pensare con la propria testa, ma addestrato a dire la cosa giusta al
momento giusto. Per ogni domanda esiste una risposta e quella va imparata
a memoria. "Che cosa succede quando la neve si scioglie?" chiede la maestra,
e la classe, in coro, deve rispondere: "Diventa acqua!" Se a uno viene
da dire: "Arriva la primavera!" è redarguito. Con quello sfoggio
di fantasia si è messo fuori del gruppo e questo è mal visto.
"Il chiodo che sporge, va preso a martellate", dice un vecchio proverbio
giapponese. E un principio ancora validissimo. Chi esce dai ranghi, chi
la pensa a modo suo, chi crede di poter fare da sé, è un
"indesiderabile". L'essere semplicemente "diverso" dal gruppo è
una colpa, l'essere escluso dal gruppo è la peggiore punizione.
Pochi mesi fa, un quattordicenne di Shimabara si è tolto la vita
perché, a causa di una piccola infrazione ai regolamenti della scuola,
temeva di essere escluso dalla squadra di baseball.
Il contenuto stesso dell'educazione non
lascia alcuna scelta all'individuo. Il ministero della Pubblica Istruzione
decide quel che deve essere insegnato. I libri di testo passano una severissima
censura e lo studente giapponese, che può leggersi a volontà
i fumetti sadomasochisti che inondano il mercato, non riuscirà a
trovare, fra i libri che gli passano per le mani a scuola, uno che gli
dia una versione obiettiva, per esempio, della seconda guerra mondiale,
uno che usi la parola "invasione" per l'avanzata giapponese in Cina e nel
Sud-Est asiatico, uno che parli delle atrocità commesse dall'esercito
imperiale giapponese in quei Paesi. Generazione dopo generazione crescono
così senza avere la minima idea della recente storia del loro Paese
e delle relazioni che questo ha avuto con il resto dell'Asia, dove il Giappone
è ancora visto con notevole sospetto. "Fintanto che i cittadini
non insisteranno sul loro diritto all'informazione, il Giappone non sarà
una società realmente democratica", dice il professor Teruhisa Horio,
decano della facoltà di Pedagogia all'università di Tokyo
e uno dei più duri critici del sistema scolastico di questo Paese.
"Per ora è lo Stato a decidere che cosa i cittadini devono pensare."
E lo Stato sembra avere un'idea molto chiara
di come i cittadini devono essere e del "giapponese modello" che la scuola
deve produrre. Il "modello" è stato descritto con grande precisione
in un libretto di 54 pagine, dalla copertina gialla, che ogni preside tiene
oggi nel proprio cassetto. E intitolato L 'immagine del giapponese desiderato.
Pubblicato dal ministero della Pubblica Istruzione nel 1964, il libretto
definisce la funzione e gli obiettivi del sistema scolastico. "Per il futuro
benessere dello Stato e della società, il Giappone ha bisogno di
un nuovo tipo d'uomo", si legge nel libretto. "Un uomo che abbia coscienza
della propria unicità di giapponese, un uomo che trovi soddisfazione
nella completa dedizione al lavoro."
L'idea fu brillante. Erano gli anni in
cui il Giappone, ancora povero, era scosso da violenti conflitti sociali,
in cui la sinistra aveva ancora abbastanza forza da contestare ai conservatori
il diritto di governare e in cui la grande industria giapponese progettava
il suo grande balzo in avanti per catapultare il Paese, come si diceva
allora, "nell'era della massima crescita economica". Si trattava di far
dimenticare alla gente la politica, di mettere dinanzi al naso di ognuno
la carota del benessere. Si trattava soprattutto di popolare le fabbriche,
i cantieri, gli uffici del Paese con dei giapponesi che fossero da un lato
ben preparati, dall'altro leali e obbedienti. Alla scuola fu affidato l'importantissimo
compito di produrre questo tipo di cittadini che il professor Horio chiama
"gli schiavi dell'industria".
Quel compito non è mai stato ridefinito
e L’immagine del giapponese desiderato, nel frattempo alla sua ventesima
edizione, è ancora una sorta di Bibbia per gli educatori di qui.