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Corte di Cassazione: sentenza del 9 febbraio 1995 (terza parte)

Tratto da: Cd Juris Data, Sentenze della Cassazione Penale, testo integrale, 1995-1998 I° sem., Giuffrè Editore.

Ricerca a cura di Floridi L.

 
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Diritto

l. Le questioni procedurali

Osserva la Corte che vanno presi in esame, anzitutto, i motivi di ricorso concernenti le questioni procedurali, che - come si è visto - sono comuni a quasi tutti i ricorrenti.

l.l. Nullità relative all'esercizio dell'azione penale.

La prima censura da affrontare è quella concernente le nullità relative all'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero (motivo n. 1, avvocato "L."; motivo n. 4, avvocato "D."; motivo n. 4, avvocato "V."; motivo n. 4, avvocato "S."; motivi n. 6 ricorso "B.", n. 6 ricorso "L." e n. 6 ricorso "C.", avvocato "L."). In sostanza i ricorrenti lamentano che quest'ultimo, nel formalizzare il procedimento, si sia limitato ad indicare gli articoli di legge o gli astratti titoli dei reati per i quali voleva che si iniziasse azione penale nei confronti dei prevenuti, omettendo però di formulare concretamente il capo di imputazione; e che, in tal modo, la richiesta di istruzione formale sia del tutto generica e si risolva, quindi, in un esercizio meramente formale ed apparente dell'azione penale.

Le censure sono infondate. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, agli effetti dell'articolo 185, n. 2, in relazione agli. articoli 74 e 296 c.p.p., l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale mediante la richiesta di istruzione formale, è legittimamente adempiuta anche quando il rappresentante della pubblica accusa si limiti a richiedere al giudice istruttore di procedere con istruzione formale per i fatti penalmente rilevanti e nei confronti dei soggetti risultanti dagli atti di accusa alla richiesta, ancorché non siano precisati i capi di imputazione, giacché tale precisazione non è collegabile necessariamente all'atto iniziale dell'esercizio dell'azione penale, "ma molte volte è possibile solo dopo lo svolgimento dell'istruzione" (Cass. pen., sez. II, 21 ottobre 1974, ud. 20 febbraio 1974, Perrini). Ma i ricorrenti hanno citato una sentenza delle sezioni unite di questa Corte, secondo cui "la richiesta di istruzione formale non può prescindere dall'enunciazione sia pure sintetica dei termini essenziali dell'imputazione (fatto storico determinato attribuito ad un soggetto), anche se ciò non esclude precisazioni e modifiche dell'imputazione stessa nel corso dell'istruzione" (cfr.: Cass. pen., sez. un., 15 febbraio 1985, Saccomanno, RV 167906). Ed avvalendosi del principio in essa affermato, ritengono di potere sostenere che, nella specie, l'azione penale non sarebbe iniziata.

Sennonché, va rilevato che la fattispecie presa in esame nella sentenza suddetta è completamente diversa da quella per cui è processo. Nella prima ipotesi il pubblico ministero si era limitato a trasmettere gli atti al giudice istruttore "per competenza, ai sensi dell'articolo 392 bis c.p.p.", senza avere neppure indicato il nominativo dell'imputato ed il reato per cui intendeva procedere; mentre nel caso di che trattasi tali indicazioni vi sono state, ed esse integrano, sia pure sinteticamente, i termini essenziali dell'imputazione.

1.2. Nullità delle comunicazioni giudiziarie

La seconda questione da prendere in esame riguarda, invece, la denunciata NULLITĀ delle comunicazioni giudiziarie perché tardive e perché prive degli elementi essenziali (indicazione delle norme di legge violate e della data del fatto addebitato) di cui all'articolo 304 c.p.p. del 1930 (motivo n. 2, avvocato "L."; motivi nn. 2 e 3, avvocato "D."; motivi nn. 2 e 3, avvocato "V."; motivi 2 e 3, avvocato "S."; motivi n. 6 ricorso "B.", n. 6 ricorso "L." e n. 6 ricorso "C.", avvocato "L.").

Le censure sono infondate. Per quanto concerne la tardività della comunicazione giudiziaria, si osserva, infatti, che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'obbligo di inviare tale atto sorgeva solamente quando fossero stati acquisiti elementi probatori o indizianti tali da indicare chiaramente la persona contro la quale si doveva procedere per un determinato reato (Cass. pen., sez. V, 11 ottobre 1983, "G."; Cass. pen., sez. V, 15 giugno 1983, "R."; Cass. pen., sez. II, 24 gennaio 1984, "S."; Cass. pen., sez. II, 18 aprile 1984, "V."; Cass. pen., sez. I, 28 giugno 1984, "B."). Il Tribunale ha, peraltro, respinto la suddetta eccezione di nullità per tardività della comunicazione giudiziaria, affermando, nella sua ordinanza del 24 maggio 1989, che seppure "alcuni imputati ricoprivano la carica di presidente o di vicepresidente, o comunque erano rappresentanti delle varie associazioni meglio indicate in ciascun capo d'imputazione, già molto tempo prima che fosse emessa la comunicazione giudiziaria nei loro confronti", tuttavia solo nel prosieguo dell'istruttoria erano emersi elementi specifici che consentivano l'attribuzione di singoli reati ai rappresentanti delle associazioni in questione.

Gli stessi giudici del Tribunale hanno, inoltre, precisato, per quanto concerne le comunicazioni giudiziarie emesse nei confronti dei singoli operatori "a notevole distanza di tempo dalle singole denunzie, che tale ritardo non comporta alcuna nullità, perché nessun atto istruttorio era stato compiuto nelle more". Peraltro, tali affermazioni, pur riferendosi ad una questione procedurale, presuppongono l'apprezzamento di situazioni di fatto, istituzionalmente riservato al giudice del merito; esse sono, dunque, censurabili solo per vizio di motivazione che, nella specie, non sussiste dal momento che il ragionamento effettuato dai giudici del Tribunale è - come si può constatare agevolmente - del tutto immune da difetti logici.

Senza dire che alla fattispecie potrebbe anche adattarsi il principio giurisprudenziale, secondo cui "il procedimento penale è una fattispecie complessa a formazione successiva, nella quale una serie di atti si sviluppa in un rapporto logico fino ad un momento conclusivo; pertanto, quando il procedimento si riferisce a più reati, i quali, oltre che soggettivamente connessi, siano legati da connessione oggettiva ed emergono in tempi successivi nel corso dell'istruzione, l'inquisito, una volta che con l'iniziale comunicazione giudiziaria ha preso conoscenza della pendenza del procedimento, è messo in condizione di esplicare il suo diritto di difesa, seguendo gli sviluppi dell'inchiesta, ivi compresa la possibile insorgenza di nuove ipotesi di reato connesse con quella originaria; e dunque per le anzidette nuove ipotesi criminose non occorre un'ulteriore comunicazione giudiziaria" (Cass. pen., sez. VI, 4 marzo 1977, Morlino).

Per quanto concerne, invece, la data del commesso reato, osserva la Corte che tutte le comunicazioni giudiziarie la contengono, indicandola con l'espressione "fino alla data odierna", e che in ogni caso - come hanno puntualizzato i giudici del Tribunale di Milano - la data d'inizio dell'attività contestata era chiaramente desumibile dalla motivazione del provvedimento, "che faceva riferimento all'attività ascritta a ciascun imputato all'interno, delle varie associazioni in questione". Ora, gli elementi sovra esposti sono più che sufficienti ad impedire nel caso concreto - la nullità dei menzionati atti processuali, il cui fine di consentire agli imputati di apprestare la difesa è stato, peraltro, sicuramente raggiunto.

1.3. Inammissibilità dell'appello del P.M.

La terza questione di carattere processuale concerne l'inammissibilità dell'appello del pubblico ministero, già disattesa dai giudici della Corte di merito, e riproposta da quasi tutti i ricorrenti (motivo n. 9, avvocato "L."; motivo n. 1, avvocato "D."; motivo n. 1, avvocato "V."; motivo n. 1, avvocato "S."; motivo n. 1, avvocato "P."; motivi n. 6 ricorso "B.", n. 6 ricorso "L." e n. 6 ricorso "C.", avvocato "L.").

Costoro lamentano, in buona sostanza, la genericità dei motivi di appello del pubblico ministero ed il fatto che quest'ultimo abbia fatto riferimento alle argomentazioni svolte nel corso della sua requisitoria, ed a quelle svolte nell'ordinanza del giudice istruttore, e quindi prima della redazione della sentenza impugnata.

La censura è infondata. Come hanno correttamente rilevato i giudici del secondo grado, "se è vero che il pubblico ministero nel presentare i motivi di appello ha sostanzialmente ribadito le tesi già sostenute dal giudice istruttore nell'ordinanza sentenza di rinvio a giudizio e dal suo ufficio al termine del dibattimento di primo grado, è però anche vero che egli ha lamentato i metodi adottati dal Tribunale nella stesura della sentenza, nella quale non si era dato risposta a diverse osservazioni esposte dalla pubblica accusa e non si era dato adeguato valore a numerose risultanze processuali" (pag. sentenza Corte di appello).

Conseguentemente, l'impugnazione del pubblico ministero ha tenuto nel debito conto le conclusioni esposte dai giudici di primo grado nella loro sentenza. Né il richiamo fatto dal rappresentante della pubblica accusa ad atti predisposti prima del deposito di tale provvedimento appare, nella specie, inutile: ed infatti, i problemi e le questioni da lui in precedenza sollevati non avevano trovato compiuta risposta, ed era, dunque, legittimo riproporli, anche mediante il semplice richiamo degli atti con cui in precedenza erano state formulati. Quindi, come hanno puntualmente rilevato i giudici della Corte di merito, la giurisprudenza citata dai ricorrenti - riferentesi all'ipotesi in cui i motivi di appello siano presentati prima della sentenza, nell'ignoranza delle argomentazioni del giudice appellato - non si adatta al caso concreto. Né sembra a questa Corte che i motivi di appello in questione non muovano specifiche censure all'iter logico seguito dalla sentenza impugnata, in quanto non contengono riferimenti a singoli e specifici addebiti, come hanno sostenuto i ricorrenti. Anche su questo punto, in linea con i rilievi dei giudici del secondo grado, la Corte osserva che i primi giudici hanno esposto alcuni principi in via generale sia riguardo all'associazione per delinquere, sia con riferimento alle categorie dei reati contestati, sia infine in relazione alla responsabilità dei capi dell'organizzazione per i singoli fatti; e da tali principi hanno fatto, poi, derivare le loro conclusioni per ogni episodio criminoso. Con il risultato che non possono dirsi generici i motivi di appello di una parte che, muovendosi in perfetta linea con questa impostazione, e contestando le argomentazioni espresse in generale dal Tribunale, ha di lì inequivocabilmente tratto delle conseguenze, per i singoli episodi, del tutto opposte a quelle ritenute dai primi giudici.

1.4. Difetto di correlazione tra accusa contestata e sentenza

Ulteriore censura di carattere processuale è quella relativa al difetto di correlazione tra la sentenza e l'accusa contestata, con conseguente violazione dell'articolo 477 c.p.p. del 1930. Come si è visto, alcuni ricorrenti sostengono che i giudici della Corte di appello affermando la responsabilità penale di quei prevenuti ai quali i vari reati erano stati contestati in quanto ai vertici dell'associazione, per il fatto diverso che costoro avevano ricoperto incarichi direttivi di altra natura avrebbero violato il disposto della norma processuale sopra citata (motivo n. 10 avvocato "L."; motivo n. 5, avv. "D."; motivo n. 5, avvocato "V."; motivo n. 1, lettera b), avv. "P."; motivo n. 1, avvocato "B.").

Ma anche tale censura è priva di fondamento. Ed infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "il principio di correlazione fra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, fondato sull'esigenza di evitare che l'imputato possa essere condannato per un fatto in ordine al quale non abbia potuto difendersi, non deve essere interpretato in senso rigorosamente formale, ma con riferimento alle ragioni che l'hanno dettato ed alle finalità alle quali è diretto. Di conseguenza il principio non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria, ma solamente in caso di mutamento sostanziale del fatto in relazione all'oggetto dell'accusa, la quale non va individuata soltanto con riferimento alla contestazione enunciata nel decreto di citazione o nell'ordinanza di rinvio a giudizio, ma con riferimento alla contestazione sostanziale; deve pertanto escludersi la violazione dell'art. 477 cod. proc. pen. del 1930 tutte le volte che, in base agli atti processuali, anche diversi da quelli tipici diretti allo scopo, risulti che l'imputato abbia avuto conoscenza dell'accusa e sia stato messo in condizione di difendersi" (Cass. pen., sez. 1, 6 ottobre 1993, Maggi e altri, RV 197222; conf. 183258 1-85961, 192545).

A tale principio - espressamente richiamato - si sono, peraltro, adeguati i giudici della Corte di appello di Milano. Essi hanno, infatti, affermato che non si comprende "quale rilevante immutazione del fatto si sia, nella specie, verificata, quando agli imputati, ai quali era stato contestato un loro stretto collegamento con l'organizzazione, sia pure sulla scorta di una carica meramente ufficiale, venga poi addebitato quel medesimo stretto collegamento in base al ruolo effettivamente svolto all'interno di quella stessa organizzazione"; ed hanno poi chiarito che, nel caso concreto, non è stata posta alcuna limitazione al diritto dei prevenuti di difendersi, ove si tenga conto che il nuovo ruolo loro attribuito "risulta da atti e documenti sequestrati nelle varie sedi (in particolare dal famoso organigramma, dalle attestazioni dei ruoli da essi rivestiti rispetto a quell'organigramma, dagli scritti con le sigle, indicanti il loro incarico, accanto ai loro nomi), tutti atti sostanzialmente contestati negli interrogatori, e comunque depositati prima della chiusura dell'istruttoria; senza contare, infine, che gli stessi imputati non solo sono stati interrogati il più delle volte sui loro specifici compiti, nell'ambito dell'organizzazione, ma hanno addirittura essi spontaneamente fornito dichiarazioni al riguardo" (pag. 140 sentenza Corte di appello).

Anche tale affermazione, peraltro, anche se si riferisce ad una questione procedurale, riguarda sostanzialmente una situazione di fatto, il cui apprezzamento - come si è già chiarito - è riservato al giudice del merito, ed è censurabile solo per vizio di motivazione.

1.5. Nullità dell'istruzione per mancato deposito degli atti ai Sensi dell'articolo 372 c.p.p. del 1930

Si osserva, altresì, che la censura concernente la nullità del processo per mancato deposito degli atti e dei documenti, ai sensi dell'articolo 372 c.p.p. del 1930 (motivo n. 5, avvocato "L."; motivo n. 7, avvocato "V."; motivo n. 6, avvocato "S."), è destituita di fondamento.

Il giudice istruttore ha, infatti, ritualmente depositato e messo a disposizione dei difensori tutti gli atti e i documenti necessari alla definizione del processo; mentre, come hanno chiarito i giudici del Tribunale, i documenti sequestrati e non depositati in cancelleria, perché custoditi presso la depositeria comunale, erano atti irrilevanti ai fini del procedimento, tanto che, con l'ordinanza di rinvio a giudizio depositata il 3 ottobre 1988, il giudice istruttore dispose la separazione di quegli atti, che confluirono in altra istruttoria.

1.6. Nullità della sentenza di appello per l'utilizzazione di deposizione testimoniali di cui non era stata data lettura

Del pari infondate sono le censure di quei difensori (motivo n. 12, avvocato "L."; motivi nn. 6 e 12, avvocato "V."; motivo n. 5, avvocato "S."), i quali hanno lamentato che i giudici della Corte di appello avrebbero fondato la loro decisione utilizzando indifferentemente ogni testimonianza resa sia nella fase istruttoria che dibattimentale, indipendentemente dalla oggettiva lettura di esse in primo grado e, conseguentemente, in violazione dell'articolo 466 bis c.p.p. del 1930.

A tal proposito osserva, anzitutto, la Corte che, prima di chiudere l'istruttoria dibattimentale, i giudici del Tribunale di Milano diedero "lettura di tutti gli atti consentiti", come si desume dal verbale dell'udienza del 3 aprile 1991, e che a tale lettura nessuno si oppose. Dunque, nella specie, erano certamente utilizzabili da parte dei giudici della Corte di appello tutte le deposizioni testimoniali indicate nell'articolo 462 c.p.p. del 1930. Ma erano anche utilizzabili le dichiarazioni di quelle persone che erano state sentite dalla Polizia giudiziaria e che erano state riportate nei vari rapporti giudiziari.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, "le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria possono essere assunte dal giudice quale fonte di prova, quando formino parte integrante del rapporto; in tal caso la loro lettura è sempre consentita nel dibattimento, anche senza la preventiva audizione dei verbalizzanti" (Cass. pen., sez. II, 16 ottobre 1986, Ursino).

Osserva, infine, la Corte che, nel corso del dibattimento di secondo grado è stata prodotta, a fini difensivi, una copiosa documentazione contenente numerose dichiarazioni di testimoni non citati nel giudizio di primo grado; e che anche a tale produzione, ed al conseguente uso dei documenti, nessuno si è opposto, con la conseguenza che i relativi atti sono entrati a far parte del materiale probatorio utilizzabile dai giudici ai fini della decisione. Ed alla stregua delle superiori argomentazioni appare evidente che non sussiste la dedotta nullità.

1.7. Nullità dell'istruttoria perché alcune persone, dichiarate non punibili ai sensi dell'articolo 48 C.P., sarebbero state interrogate senza la presenza di un difensore

Del pari infondata è l'eccezione di nullità dell'istruttoria perché l'escussione da parte del giudice istruttore di alcune persone, successivamente dichiarate non punibili ai sensi dell'articolo 48 C.P., sarebbe avvenuta in assenza di difensore (motivo n. 7, avvocato "L."). Ed infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di rito, "la nullità di ordine generale indicata dall'articolo 185 n. 3 c.p.p., verificatasi nei confronti di uno o più imputati non infirma la validità del rapporto processuale e della sentenza nei confronti dei coimputati rispetto ai quali si verifichi quella nullità " (Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 1979, Giachino; Cass. pen., sez. III, 4 giugno 1980, Bernardino).

Dunque, l'eventuale nullità dell'interrogatorio di persone successivamente dichiarate non punibili non sarebbe, in alcun caso, idonea a produrre effetti di sorta rispetto agli attuali ricorrenti.

1.8. Nullità del giudizio di secondo grado, nei confronti della "B." e della "B.", per irregolarità della notificazione dell'atto di appello del pubblico ministero.

Quanto all'eccezione di nullità del giudizio di secondo grado per l'irregolarità delle notifiche dell'atto di appello del pubblico ministero, proposto contro la "B." e la "B." (motivo n. 8, avvocato "L."), si osserva che la stessa è destituita di fondamento. In particolare, per quanto riguarda la "B.", nei cui confronti - secondo la difesa - la notificazione dell'atto di appello sarebbe avvenuta a mani della figlia in una località diversa dal domicilio dichiarato di Pordenone, i giudici della Corte di appello di Milano hanno già messo in evidenza che da un più attento esame del testo della relazione dell'ufficiale giudiziario, nonché delle indicazioni a quest'ultimo fornite dall'Autorità procedente sull'indirizzo dell'imputata (si vedano la facciata ed il retro della notifica), risulta che questa venne effettuata proprio nel domicilio dichiarato di Pordenone, a mani della figlia qualificatasi come convivente; e che il diverso indirizzo scritto su quello stesso foglio (via Venere n. 1, Fontanafredda) si riferisce alla coimputata "M.", essendo stata inserita in quella pagina la relazione di notificazione nel domicilio dichiarato da quest'ultima.

Per quanto concerne, invece, la "B." osserva la Corte che la prevenuta aveva originariamente dichiarato il proprio domicilio a Polinago, in via Castello di Brandolla, n. 1; e che - come hanno esattamente rilevato i giudici della Corte di appello - la donna aveva inteso compiere una dichiarazione e non un'elezione di domicilio, malgrado la diversa definizione che compare nell'intestazione del suo interrogatorio davanti al giudice istruttore, in data 1 luglio 1988. Ed infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte "l'elezione di domicilio è una dichiarazione di volontà e cioè un atto negoziale ricettizio e ad efficacia costitutiva consistente nella scelta di una persona investita del potere di ricevere le notificazioni degli atti in un determinato luogo, diverso da quello in cui l'imputato ha la sua effettiva residenza"; conseguentemente, si deve escludere che la "B.", quando ha dichiarato di eleggere domicilio presso la sua abitazione di Polignago, abbia compiuto un'elezione di domicilio, dovendosi, invece, ritenere - in base al menzionato indirizzo giurisprudenziale - che l'espressione da lei utilizzata debba essere intesa come dichiarazione di domicilio.

Ora, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, "nel caso di cambiamento di domicilio da parte dell'imputato, non comunicato ai sensi del quarto comma dell'articolo 171 c.p.p. del 1930, la notificazione divenuta impossibile presso il domicilio originariamente dichiarato va eseguita presso il nuovo domicilio, e non mediante deposito in cancelleria, solo se si abbia del nuovo domicilio precisa notizia, e cioè, oltre al comune in cui si trova, se ne conosca la via ed il numero, perché, considerato il disposto dell'articolo 171 c.p.p., è da escludere che l'autorità sia tenuta a svolgere ulteriori ricerche" (Cass. pen., sez.VI, 2 aprile 1990, Alberini).

Tale giurisprudenza, che si condivide, ha superato un precedente indirizzo giurisprudenziale - invocato dal ricorrente - secondo cui, in caso di omessa consegna dell'atto nel luogo indicato come proprio domicilio, la notificazione poteva essere effettuata in un luogo diverso, solo se era ricevuta direttamente dall'interessato. Nella specie, peraltro, il padre dell'imputata, nel rifiutare di ricevere la notifica, dell'atto di impugnazione del pubblico ministero nell'abitazione di Polinago, ha indicato con esattezza il nuovo domicilio della "B." a Milano, e la notificazione è avvenuta in tale luogo ai sensi dell'articolo 169 c.p.p. del 1930. Ed è appena il caso di rilevare che l'imputata ha effettivamente stabilito il suo nuovo domicilio a Milano, all'indirizzo indicato dal di lei padre, come si desume dalla circostanza che il decreto di citazione a giudizio in grado di appello le venne personalmente notificato proprio in quel luogo.

1.9. Nullità delle perizie perché eseguite in violazione dei diritti della difesa

Va, inoltre, disattesa la censura relativa alla utilizzazione da parte dei giudici del merito delle perizie, che - ad avviso del difensore del "T." (motivo n. 13, avvocato "V.") - sarebbero nulle, perché eseguite, in violazione dei diritti della difesa; e ciò in quanto il perito sarebbe stato autorizzato a prendere visione di atti istruttori coperti dal segreto istruttorio e quindi non a disposizione dei consulenti di parte. Come hanno, infatti, esattamente rilevato i giudici della Corte di appello di Milano, non è possibile configurare alcuna nullità per il fatto che il giudice istruttore abbia autorizzato il perito a consultare atti coperti ancora dal segreto istruttorio, dal momento che vi era un'apposita disposizione, l'articolo 317, comma 3, c.p.p. del 1930, che dava questa facoltà al giudice, e considerato che, in ogni caso, una simile condotta non rientra in alcuna delle ipotesi indicate dall'articolo 185, comma 3, c.p.p. del 1930.

Né sussistono, ad avviso di questa Corte, i presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell'articolo 317 citato, non ravvisandosi alcun contrasto con l'articolo 24 della Costituzione nella possibilità data al perito, quale ausiliario del giudice, di visionare degli atti non disponibili per i consulenti di parte. Ed infatti - come hanno già puntualizzato i giudici del merito - si deve ribadire che, durante la vigenza del codice di procedura penale del 1930, il perito non solo affiancava il giudice, al solo scopo di fargli conoscere la verità su questioni tecniche, ma assumeva altresì gli obblighi propri del giudice, prestando giuramento e potendo essere ricusato per gli stessi motivi previsti per il giudice; mentre il consulente di parte collaborava con il difensore, fornendo il suo apporto tecnico conseguentemente, il differente trattamento tra i due diversi soggetti, previsto dal citato comma 3 dell'articolo 317 c.p.p. del 1930, trovava la sua piena giustificazione in tutto il sistema cui era improntato quel codice.

Inoltre, le circostanze che il consulente di parte fosse autorizzato a presenziare alle operazioni peritali esclusivamente nell'interesse della parte, e potesse depositare una sua relazione in contrapposizione a quella del perito, e che quest'ultimo venisse sottoposto ad esame testimoniale in pubblico dibattimento anche da parte dei difensori degli imputati, affiancati e coadiuvati dai loro consulenti, dimostrano in maniera inequivocabile che la norma sopra menzionata non violava in alcun modo il diritto della difesa.

1.10. Nullità della contestazione del delitto di esercizio abusivo della professione medica perché non sarebbe stata indicata la data di commissione del reato

Infine, osserva la Corte che è completamente destituita di fondamento la censura concernente la nullità della contestazione di cui al capo 43, in quanto nell'imputazione di esercizio abusivo della professione medica mancherebbe la data di commissione del reato (motivo n. 6, avvocato "L."). Ed infatti, va anzitutto messo in rilievo che nel suddetto capo di imputazione contestato a numerosi imputati, i quali si erano resi responsabili, in tempi diversi, del delitto punito dall'articolo 348 C.P. - è chiaramente specificato che il menzionato reato era stato da loro commesso "in Milano ed altrove, alle date di cui alle rispettive imputazioni"; e che per ognuna delle ulteriori imputazioni ascritte singolarmente ai diversi prevenuti sono puntualmente indicati sia il luogo che la data del commesso delitto. Dunque, in ogni caso la data del commesso reato è validamente indicata "per relationem", mentre è appena il caso di osservare che - seppure l'indicazione fosse generica - atteso il tipo di imputazione ed il suo inquadramento nella vicenda per cui è processo, il diritto di difesa dei prevenuti non sarebbe stato comunque menomato.


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